Blitzkrieg – La guerra lampo

Reichsparteitag_1935

La Germania del Reich

All’inizio degli anni Trenta le democrazie non diedero molto peso agli sbraiti e alle idee visionarie di Adolf Hitler rivolti alla conqui­sta di tutto il pianeta. Al contrario le sue orazioni alquanto vigorose e carismatiche galvanizzarono il popolo tedesco che, dopo un quindicennio di governi deboli e umiliati, vide nella figura del Führer la rinascita della vecchia Germania, riportando in auge le pretese di superiorità della «razza ariana», con i suoi propositi di sottomettere le altre inferiori, e lo spirito patriottico legato in massima parte alle antiche tradizioni nordiche e ai miti wagneriani.

Il dittatore tedesco aveva ripreso questo modo di far politica e di propaganda dal suo «maestro» Benito Mussolini che, proclamatosi «DUCE», già da oltre dieci anni in Italia aveva organizzato il suo regime verso la dittatura con l’obiettivo di riportare Roma agli splendori dell’antico Impero. Hitler in quel periodo copiava pedissequamente in tutto l’atteggiamento di Mussolini. Tuttavia quello, che si mostrava come un timido allievo nel viaggio in Italia del giugno del 1934, mostrerà nell’arco di appena cinque anni i nefasti progressi, che questa imitazione aveva realizzato nel totalitarismo nazista.

Gengis Khan nel Medio Evo era riuscito a formare un vasto impero nell’Asia centrale saccheggiando, bruciando e depredando, assicurando per sé gran parte del mondo del XIII secolo; Hitler aveva l’intenzione di superare le conquiste mongole, per raggiungere la potenza sull’intero pianeta.

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La propaganda e il riarmo

Per raggiungere il dominio del territorio, oltre a un possente esercito era necessaria una forte propa­ganda sia all’interno che all’esterno del paese. Per questo dalla metà degli anni Trenta vennero inviate spie e grandi oratori in numerosi paesi europei. Travestiti da viaggiatori, studenti, commercianti si muovevano gli emissari nazisti con l’obiettivo di fondare alcuni movimenti impegnati a sollevare le folle, rendere simpatico il regime hitleriano e a creare scontri armati tra fazioni per poi accusare i nemici politici di portare violenza e diffondere idee false. In sintonia con questo clima, la propaganda all’interno appariva martellante. I ministri Göbbels e Ribbentrop agivano in maniera invitante per accattivarsi i favori del popolo tedesco, ma in realtà il quotidiano era ben diverso. Gli operai nelle industrie non avevano orari stabiliti; si lavorava tutto il giorno con ritmi frenetici, tutto in funzione di un riarmo massiccio e di un riavvio dell’industria pesante, dopo le forti limitazioni delle clausole della pace di Parigi e della rigida sorveglianza della Francia, che sul Reno tremava alla sola idea di un possibile risveglio tedesco. Le innovative autostrade, fiore all’occhiello della Germania nazista, seppur vuote mostravano il livello di sviluppo economico, che il paese raggiunse in pochi anni. Il lavoro delle fabbriche per la costruzione di possenti e moderne armi era affiancato da una continua campagna a favore delle forze armate (Wehrmacht) con particolare cura dell’aviazione, la Luftwaffe, e delle truppe corazzate dell’esercito (Heer).

Nel 1919 il trattato di Versailles aveva ridotto gli effettivi tedeschi in armi a soli 100.000 uomini, ma Hitler usò questa modesta cifra per conteggiare i soli ufficiali, elementi al massimo dell’addestramento, continuando con la secolare tradizione prussiana. Tutto l’armamento, ovviamente illegale secondo le norme dei trattati postbellici, era all’avanguardia e di prima qualità, compresi i nuovi corpi dei paracadutisti e dei carristi. L’unico elemento antiquato del regime risultava essere il passo dell’oca; un’antica tortura germanica, che impedendo all’uomo di pensare, lo obbligava a ubbidire ciecamente, rendendo l’uomo simile alle macchine che usava.

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Le annessioni prebelliche

Fino a questo momento la politica tedesca si era basata solo sulla propaganda e sul riarmo, ma dal 1935 iniziarono anche le prime annessioni territoriali. Il primo obiettivo fu la Renania che, insieme alla Saar, già in mano tedesca dopo un plebiscito che aveva espresso il 90 % dei voti, era la regione del Reich al confine con la Francia e per questo sotto la lente di Parigi, impaurita più che mai dalla nuova iniziativa di Berlino.

Tale zona venne smilitarizzata alla fine della Grande Guerra per evitare un nuovo possibile attacco germanico; la regione, secondo il trattato di Locarno (1925) non poteva contenere milizie né tanto meno mezzi corazzati, ma Hitler, rendendo l’azione come fatto interno al suo paese e banalizzando la situazione militare del Reich, non ricevette ammonimenti internazionali o prese di posizioni straniere. La Renania diventava così anche il teatro di numerose costruzioni fortificate. Infatti nei piani del Führer vi era il progetto di porre come antagonista della famigerata Linea Maginot, la sua Linea Siegfried, lunga 600 km, larga 30 km, ancora più potente e meglio armata di quella francese. Dopo l’annessione della regione occidentale, passata sotto silenzio, la Germania aveva come obiettivo quello di mostrare veramente di che pasta fosse fatto il suo rinnovato apparato militare. Per questo nel marzo del 1938 senza consultare i paesi firmatari dei Trattati di pace, con una benevola neutralità di Mussolini, invase l’Austria, mascherando l’annessione come una liberazione dei popoli di lingua tedesca ingiustamente separati dai fratelli maggiori del Reich. L’autonomia dello stato alpino era stata sancita sempre a Parigi nel 1919, ma Hitler riuscì a convincere le potenze vincitrici del conflitto mondiale che le sue intenzioni erano non solo pacifiche, ma anche legittime: creare uno stato omogeneo per cultura, tradizione e lingua, non avendo rivendicazioni territoriali e promettendo di mantenere stabili i confini e le decisioni del 1919.

II popolo austriaco acclamò il proprio compatriota, che risvegliava già nella gente gli onori e la gloria dell’Impero asburgico. Come al solito la realtà differenziava di gran lunga da ciò che appariva sui giornali e nei cinematografi, e già nei giorni seguenti l’annessione le SS rastrellarono le case e deportarono coloro che non condividevano l’entusiasmo della maggioranza. Il cancelliere della repubblica austriaca Kurt Alois von Schuschnigg venne deposto, arrestato e venne indetto un referendum popolare, falsato e gestito in tutti i sensi dalla Gestapo, per la concreta annessione dell’Austria alla “Grande” Germania. La conclusione dell’operazione fu l’Anschluss, che non provocò gravi critiche all’estero, anzi rese ancora più stretto il legame con l’Italia fascista, che nel 1938 era divenuta una valida sostenitrice diplomatica nell’opera politica tedesca.

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La questione cecoslovacca

Il desiderio di conquista del mondo obbligava la Germania all’inizio del 1938 a mirare per prima agli stati più vicini e più deboli. Dopo l’Austria si imponeva sulla carta geografica la Cecoslovacchia, formata da vasti territori appartenuti fino a venti anni prima alle antiche nazioni tedesche. La situazione non era comunque delle migliori. Lo stato slavo aveva un’ottima difesa a ovest, un valido esercito, una potente industria bellica e civile come la Skoda, un presidente incorruttibile Edvard Beneš e una forte alleanza con Francia e Gran Bretagna, che gli garantiva una valida copertura contro i progetti espansionistici di Hitler. Questi, per evitare accuse e recriminazioni, escogitò un piano diplomatico da abile giocatore d’azzardo. Egli affermava che nella regione ceca di confine, i Sudeti (molto fortifica e difficile da valicare), vivevano molti gruppi di abitanti di origine germanica e con il pretesto di voler unificare la grande nazione di lingua tedesca pretendeva la zona montuosa anche a costo di una guerra poiché egli, come salvatore della patria, aveva il dovere morale di liberare i suoi compatrioti. In realtà questi ultimi ormai vivevano serenamente sotto Praga, molti di loro tra l’altro anche perché erano nel frattempo fuggiaschi, espatriati dal giogo nazista, e non avevano nessuna intenzione di tornarvi come schiavi. Tuttavia le astute argomentazioni del Führer, intervallando suppliche e minacce, e le azioni violente dei nazisti sudeti, presentate come difesa contro il razzismo antitedesco dei cecoslovacchi, portarono le grandi potenze europee a muoversi e a intervenire affinché si preservasse l’incerta pace, convinti nella buona fede del dittatore tedesco.

Neville Chamberlain, primo ministro britannico, iniziò quindi ad avere numerosi incontri con Hitler nel suo rifugio alpino a Berchesgaden e a Bad Godesberg. Qui tra i due nacque un’intesa diplomatica e l’inglese promise un colloquio anche con i rappresentanti di Francia e Italia per risolvere pacificamente la situazione. Il dittatore, sempre grazie all’influenza di Mussolini, come primo ministro di una nazione vincitrice della Guerra mondiale, organizzò nell’autunno di quello stesso anno un congresso a Monaco, al quale parteciparono i quattro grandi: i due dittatori, il primo ministro britannico ed Edouard Daladier, premier francese. I rappresentanti firmarono l’accordo, nel quale si sanciva il passaggio della regione dei Sudeti al Reich in breve tempo, senza per altro coinvolgere nella decisione il governo cecoslovacco. In maniera ingenua Francia e Gran Bretagna si reputarono soddisfatte e non alzarono obiezioni, anche perché il Führer ribadì anche in questa circostanza di volere solo cittadini tedeschi, non cecoslovacchi. Assicurò che questa sarebbe stata la sua ultima pretesa territoriale, avendo sanato in pieno le ingiustizie della Conferenza della pace, che aveva reso i suoi compatrioti stranieri tra loro e soggetti a paesi diversi. Mussolini insieme al ministro degli Affari Esteri, nonché suo genero, Galeazzo Ciano tornò in Italia soddisfatto, ma vide di cattivo auspicio il largo entusiasmo degli Italiani verso la pacifica soluzione raggiunta. Cosciente dell’impreparazione del paese a una possibile nuova guerra, concretizzò ancora di più il forte allineamento tra Italia e Germania, che portò alla firma del Patto d’acciaio, che sancendo un’alleanza sia difensiva che offensiva, consacrava le due nazioni come sorelle, solidali e compagne di lotta sia in pace che in guerra.

Come è facilmente intuibile, Hitler fino ad allora aveva solo ripetuto il suo ritornello preferito, ma sei mesi dopo l’accordo siglato a Monaco, gettò la maschera e attaccò la Boemia e la Moravia. L’avanzata fu fulminea e il 15 marzo le truppe tedesche entrarono a Praga. L’annessione ora comprendeva territori mai appartenuti a stati tedeschi, annullando qualsiasi scusante di tipo culturale o etnico. Il presidente ceco Beneš venne obbligato a dimettersi e a esiliare; al suo posto i tedeschi crearono un governo fantoccio filonazista, primo di una lunga serie. L’occupazione garantiva ai vincitori un numero ragguardevole di uomini validi da utilizzare come schiavi, ampie risorse economiche e un trampolino di lancio verso Est, avendo annullato un altro impedimento strategico alla propria avanzata, che doveva con la conquista dello spazio vitale (Lebensraum), portare alla costruzione della «Grande Germania».

Il nuovo obbiettivo fu la «liberazione» di Memel, cittadina lituana al confine con la Prussia orien­tale. In quel momento la politica di Berlino risultava chiara a tutti, ma ormai era troppo tardi per porvi un valido rimedio. I piani del dittatore erano stati scritti molto esplicitamente nel Mein Kampf, ma l’Europa li aveva sempre considerati pura fantasia, impraticabile e troppo fanatici per diventare realtà.

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Il Patto di «non aggressione»

Raggiunti i successi preliminari, Hitler continuava imperterrito nella sua politica espansionistica. Conquistata la Cecoslovacchia, la prossima vittima era per logica la Polonia. Essa era fondamentale per il dittatore tedesco in quanto nel 1919 aveva beneficiato di secolari regioni dell’Impero germanico, nelle quali c’era anche Danzica, città libera, il cui «corridoio» Berlino pretendeva di annettere, così da riportare la continuità territoriale tra madrepatria e Prussia orientale. Le regioni polacche erano anche necessarie per un futuro e non ben definito attacco alla Russia, che per il momento si trovava in un periodo di stallo politico. Stalin nella sua politica totalitaria aveva ridotto e infiacchito la potenza dell’esercito e aveva, tra l’altro, silurato e giustiziato anche il maresciallo Michail Tuchačevskij, il più abile coman­dante militare che l’Unione Sovietica aveva.

La situazione delle due grandi potenze era quindi non determinata e in parte precaria. Per questo la soluzione fu un’intesa, firmata il 23 agosto 1939 tra i due ministri degli Affari Esteri, Joachim Von Ribbentrop e Vjačeslav Molotov. Tale accordo sanciva l’impegno dei due paesi di non entrare in conflitto tra di loro, mentre nel protocollo segreto allegato si fissava la spartizione della Polonia tra le due nazioni e l’occupazione sovietica degli stati baltici.

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Polonia: armadio di Hitler

Al patto appena concluso oltre Manica si respirava aria d’insofferenza. Chamberlain, ormai cosciente del vero obiettivo tedesco, regolarizzò ufficialmente l’alleanza con Varsavia e minacciò una guerra a scala europea se la Germania avesse attaccato la Polonia. Hitler rimase impassibile, affermando di volere come al solito liberare i suoi compatrioti, sottomessi da un inaudito dominio polacco e di unificare il Reich con la Prussia orientale attraverso il «corridoio» sottratto dalla Polonia alla fine della Grande Guerra. Le trattative diplomatiche fallirono; Francia e Gran Bretagna si prepararono quindi al conflitto, avvertendo che la Germania si sarebbe trovata a combattere su due fronti, fattore sempre temuto dai tedeschi.

Nel frattempo Mussolini, consapevole dei non rosei rapporti del suo capo di Stato Maggiore Pietro Badoglio sulla situazione delle forze armate, informò con suo grande dispiacere di non poter entrare in guerra subito accanto all’alleato germanico. Malgrado questa temporanea defezione, la macchina di Hitler era ormai avviata e a seguito di alcuni rinvii causati dalla diplomazia, dopo aver prima aspettato che Varsavia predisponesse la mobilitazione generale, ordinò l’attacco per il 1° settembre. Alle ore 10:00 il cancelliere proclamò dal Reichstag che le truppe naziste avevano varcato i confini orientali e che procedevano spediti verso Est. Sfortunatamente per l’Europa intera queste affermazioni non erano le solite menzogne; la realtà era a favore dei tedeschi, che possedevano circa 5.000 carri armati efficienti e 6.000 aerei di ultima generazione, gli Stukas, contro i 600 carri leggeri, 1.000 aerei lenti e antiquati e un’esile cavalleria polacca.

La guerra lampo tedesca era iniziata e la sua attuazione fu micidiale: superata la Vistola, con mezzi navali veloci, le truppe raggiunsero la capitale, che oltre a una suicida difesa poteva solo farsi forza con la Polonaise di Chopin contro i soldati «wagneriani». La resa della città venne proclamata il 28 settembre, quella della nazione il 1° ottobre; dopo la Wehrmacht, sopraggiunsero le SS, che non esitarono a saccheggiare e a giustiziare o deportare civili e militari.

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L’attacco alla Scandinavia

Gli eserciti antinazisti però non rimasero a guardare. Oltre la Manica in queste circostanze non solo le forze armate, ma tutto il popolo britannico si stava schierando per far «rinascere la gloria del genere umano». Insieme alla Francia e alla Gran Bretagna si associavano come nemiche del nazismo anche il Canada, il Sud Africa, l’Australia e tutte le altre nazioni del Commonwealth. I mari rimanevano ancora controllati dalla Royal Navy, che stava potenziando ancor di più le sue basi nel mar del Nord, a Gibilterra e a Malta.

Hitler era consapevole che il Regno Unito rimaneva il nemico numero uno della Germania; tuttavia tra le due nazioni non vi era solo la Francia, ma anche alcuni piccoli stati per il momento pacifici e non pericolosi, ma che in caso di alleanza con i britannici avrebbero impegnato non poco l’avanzata tedesca. Il dittatore adoperò quindi la sua arma preferita, la propaganda, accusando i suoi nemici di volere la guerra e promettendo agli stati confinanti privilegi e miglioramenti. La situazione non gli era favorevole, allora scelse di ricorrere alle maniere forti. La nazione che stava più a cuore a Hitler era la Norvegia, geograficamente indispensabile per l’attacco contro le isole britanniche. Essa risultava più vicina alla Scozia della Germania, quindi basi aeree norvegesi controllate dai tedeschi avrebbero garantito attacchi vittoriosi contro le postazioni militari britanniche. Inoltre i fiordi e le insenature apparivano come ottimi porti per i sommergibili tedeschi. Tuttavia per raggiungere la Norvegia, bisognava passare per la Danimarca, ma i problemi non sembravano proprio essere questi. L’attacco iniziò il 9 aprile e praticamente in 24 ore la nazione era caduta. Per superare il mare scandinavo, le milizie tedesche inosservate trovarono riparo in navi mercantili, che giunte ai porti norvegesi poterono scaricare la letale sorpresa. Qui i conquistatori trovarono accanite difese, perché si sarebbero scontrati con un popolo ben motivato e i boschi innevati garantivano molte azioni di sorpresa contro gli invasori. La situazione precipitò per i difensori quando vi fu l’impiego dell’aviazione del Reich e dei suoi addestrati paracadutisti. I norvegesi arretrarono senza sosta verso Nord e l’avanzata fu sempre più veloce anche perché alcuni traditori abbandonarono le postazioni di artiglieria costiera, che consentirono continui sbarchi nemici. Il re Haakon venne obbligato ad abbandonare Stoccolma e raggiungere Londra, sede del suo esilio provvisorio. Intanto le marine alleate cercavano di bloccare i rifornimenti che legavano gli invasori alla madrepatria, ma la distanza favoriva i tedeschi, ai quali era più facile anche respingere i contingenti in appoggio alla Norvegia che necessitavano dell’utilizzo delle portaerei molto scomode e vulnerabili. La rotta era irrimediabile: nei palazzi governativi delle nazioni scandinave conquistate oltre a sventolare la svastica si insediarono i soliti governi fantoccio filotedeschi.

Nel frattempo Mussolini non distolse mai la propria attenzione verso le operazioni vincenti dell’alleato, non senza una malcelata invidia. Nell’incontro presso il passo del Brennero del 16 aprile con Hitler si impegnò a entrare presto in guerra. Il Duce vedeva la vittoria in tasca all’Asse e non poteva certo permettersi di rimanerne fuori, anche a costo di utilizzare le forze armate italiane equipaggiate con poche e vecchie armi. Una Germania troppo forte e potente avrebbe messo non solo in ombra l’Italia, ma l’avrebbe presto o tardi ridotta a periferia del potere e serva dei suoi obiettivi.

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L’attacco ad Ovest

Con le azioni norvegesi Hitler si era garantito «l’artiglio settentrionale» per la conquista delle isole britanniche, ma adesso era necessario anche consolidare quello meridionale, formato dalla Francia. Essa, però, era ben difesa dalla fortificata linea Maginot. Un attacco in prossimità del Reno avrebbe riesumato le battaglie di posizione della Grande Guerra, quindi i generali tedeschi più capaci e con truppe superiori a quelle francesi si orientano a ripetere nelle sue linee generali l’attacco del 1914, con il quale però si sarebbe violata ancora una volta la neutralità del Belgio e in questa occasione anche dell’Olanda. Dal canto loro i francesi erano stranamente ottimisti. Ignorando le innovative tattiche di rapidità e celerità delle truppe corazzate, avevano fiducia nella Maginot (ormai divenuta però antiquata nella logica della Blitzkrieg tedesca) e non si preoccuparono eccessivamente di un eventuale ormai classico attacco da Nord attraverso le Fiandre. I piani tedeschi si basavano invece su attacchi veloci e micidiali. Il 10 maggio fitti stormi di aerei calarono paracadutisti e alianti nei cieli nell’Olanda e del Belgio. Le truppe aviotrasportate risultarono fondamentali per preparare il terreno alle colonne di terra; i ponti vennero salvati dalla distruzione, i presidi più arroccati vennero annientati e si provò anche un tentativo per rapire la famiglia reale. L’Aja cadde facilmente, Rotterdam resisteva, ma forti bombardamenti provocarono la resa della città e dell’intera nazione il 16 maggio.

Nel frattempo in Belgio iniziò la mobilitazione generale e il comando supremo francese ordinò una possente avanzata al Nord. Tuttavia le truppe dello scaltro Gerd von Rundstedt avanzarono a Sud attraverso il Lussemburgo sulle Ardenne. Tale zona collinosa e boscosa era ritenuta dai francesi inadeguata per un attacco, per questo non venne vigilata. Ecco quindi che l’attacco imprevisto mosse ancora più veloce, anche perché le poche vie di collegamento impedivano un contrattacco francese. I tedeschi raggiunsero la Mosa e l’aviazione francese non riuscì a impedire la costruzione e l’utilizzo di ponti. La tattica tedesca della guerra lampo era micidiale anche in Francia; l’attacco a punta di lancia garantiva avanzate e rifornimenti veloci. Solo in poche occasioni le sparute truppe motorizzate del generale Charles De Gaulle, ancora quasi del tutto anonimo, riuscirono a frenare gli invasori, ma l’esiguità dei mezzi si faceva sentire. Il mare appariva vicino ai tedeschi; in pochi giorni sia i francesi sia il corpo di spedizione britannico venero accerchiati e messi con le spalle al mare presso Dunkerque.

Tuttavia dalla catastrofe nacque quello che i britannici ribattezzeranno «il miracolo»: Hitler poteva eliminare il manipolo rimasto con un attacco decisivo, ma concesse a Göring e alla sua Luftwaffe il privilegio di spazzare via i nemici. La sorte sarà diversa: il cattivo tempo e gli Spitfìres britannici permisero l’imbarco dei superstiti. Benché il panico regnasse tra le truppe ormai sbandate e in cerca di rientrare in patria, le operazioni avvennero in modo ordinato, grazie anche alla capacità logistica del generale Bernard Montgomery, anche lui allora poco conosciuto. La traversata della Manica venne portata avanti da ogni tipo di imbarcazione: navi militari, mercantili, barche da pesca, da diporto e da qualsiasi altra «tinozza» che reg­gesse il mare. In Inghilterra arrivarono oltre 300.000 uomini di cui 200.000 britannici, 130.000 francesi e poche migliaia di belgi. Riorganizzato l’esercito, il nuovo premier Winston Churchill non si diede per vinto, anzi risollevò la nazione, che si preparava a continuare la guerra, difendendo a questo punto la diretta esistenza e la libertà in casa propria.

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La capitolazione della Francia

Intanto in Francia continuavano le ostilità a favore dei tedeschi, che catturarono anche il generale Henri Giraud. Le truppe francesi erano insufficienti rispetto all’ampiezza del fronte; Parigi si preparava all’ultima eroica difesa. Il 14 giugno le truppe degli invasori entrarono nella capitale, oltraggiata e sbeffeggiata. Le milizie tedesche sfilarono vittoriose per i Campi Elisi; i parigini non potevano che piangere e sperare nel futuro.

Ormai in ginocchio la Francia venne attaccata anche a Sud: 21 giugno l’Italia non poteva perdere l’occasione di sedersi come vincitrice al tavolo della pace. Mussolini ordinò l’attacco da Ventimiglia e in Savoia. In tre giorni di combattimenti l’esercito italiano perse 300 uomini, morti più per il freddo dei ghiacciai che per i colpi dei francesi. I risultati erano ormai prevedibili, si avanzava dove non c’era nessuno, ci si fermava anche davanti a un manipolo di soldati. Mussolini si consolò con il raggiungimento e la conquista di Mentone (appena pochi chilometri oltre il confine), alla quale diede un’importanza straordinaria soprattutto nella propaganda e nei cinegiornali. L’Italia non faceva comunque che il solletico alla Francia ormai in procinto di capitolare; l’armistizio venne concesso il 25 giugno. Questo fu firmato nello stesso vagone dove era stato firmata la resa dei tedeschi nel 1918, ma lo smacco non finì qui: dopo la cerimonia resa ancora più umiliante per i plenipotenziari francesi, il vagone, il museo e la statua di Foch vennero barbaramente distrutti dai nazisti.

Con la resa francese Hitler si annetteva i 3/4 della nazione, lasciando il resto al governo di Vichy, un ennesimo fantoccio alla corte di Berlino, presieduto dal vecchio generale Philippe Pétain, già veterano della Grande Guerra, ma per questo ultimo episodio giudicato a posteriori come traditore dalla Francia.

La Germania, oltre al controllo del suolo francese, si appropriò anche della popolazione, considerata inferiore, quindi schiava della super-razza; molti francesi, per evitare il peggio, furono obbligati a emigrare per lavorare nelle fabbriche tedesche. L’onore della Francia però non era del tutto morto. Le bandiere e le tradizioni dell’esercito seguirono il generale De Gaulle, animato da un elevato sentimento patriottico e di riscatto per l’onta subita dalla resa. Egli non ammise il tradimento e si impegnò a combattere nei territori francesi d’Oltremare e ad appoggiare le formazioni partigiane da Londra. La «Francia Libera» venne costituendosi dalle truppe scampate a Dunkerque, dalle milizie del centro Africa e da alcune navi da guerra; il resto delle forze armate rimase fedele a Pétain, impegnato soprattutto nell’occupazione delle regioni francesi del Nord Africa e della Siria.

De-Gaulle