La campagna nel Nord Africa

 

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L’Italia in guerra

Alla fine degli anni Trenta le forze armate italiane erano in gravi condizioni: le armi erano scarse e di vecchio tipo, l’Aeronautica usava apparecchi antiquati, la Marina era indifendibile e mancante di portaerei. Per giustificare questa ultima mancanza Mussolini aveva affermato che la stessa Italia era da considerarsi una gigantesca portaerei. Il paese, durante le sfilate, poteva mostrare al mondo solo i famosi fantomatici «otto milioni di baionette». Le guerre di Etiopia e di Spagna avevano dimostrato i limiti dell’Italia, ma nessuna riforma sostanziale era stata apportata per modernizzare la struttura militare. La campagna d’Albania, risultata vittoriosa, aveva elevato notevolmente il morale, ma non coglieva l’autentica situazione militare. In realtà ben pochi sapevano che si era rivelata una tragedia. Lo sbarco si era svolto in una confusione indescrivibile, tra urla e sconquassi, con gente finita in mare con il rischio di annegare, navi impossibilitate ad attraccare perché non era stata calcolata la profondità dei fondali. Per questo i soldati furono trasportati a terra solo grazie a barconi richiesti ai pescatori locali. Scriveva Filippo Anfuso, allora braccio destro del ministro degli Affari Esteri Galeazzo Ciano: «Se gli albanesi avessero avuto anche solo una brigata di pompieri bene armati, avrebbero potuto ributtarci nell’Adriatico».

Le tradizioni belliche non erano delle migliori, ma si inneggiavano a eroi anche i comandanti con più sconfitte a carico. I generali italiani erano quasi tutti da pensione (tra i più giovani c’era Ugo Cavallero con sessanta anni), derelitti della Prima guerra mondiale, per la maggior parte fino ad allora nell’anonimato; occorreranno le prime sconfitte per renderli «noti» alle cronache dei giornali. Le promozioni erano state concesse soprattutto per meriti fascisti o perché si apparteneva a nobili famiglie. Pietro Badoglio nel 1915 era tenente colonnello, nel 1919 divenne capo di Stato maggiore dell’Esercito e durante il Ventennio collezionò tanti prestigiosi incarichi, sopratutto per aver assecondato il regime, che nel frattempo aveva completamente rimosso dalla memoria nazionale la responsabilità materiale del generale per la rotta di Caporetto.

Per prendere tempo il Duce iniziò una lunga trattativa politica, che lo avrebbe legato alla Germania, sperando che la guerra potesse attendere alcuni anni, sia per mostrare al mondo la bellezza dell’Eur e della rinnovata civiltà di Roma, sia per preparare almeno sufficientemente le forze armate in un contesto di guerra europea. Ma la realtà fu ben diversa e il veloce impeto tedesco non poteva che accelerare le ambizioni di Mussolini. Le alte sfere delle forze armate sconsigliarono al Primo ministro l’entrata nelle ostilità in tempi brevi, ma questi vedeva la vittoria vicina e non si poteva permettere di astenersi dal tavolo della pace come vincitore. Dal balcone di Palazzo Venezia, quindi, il 10 giugno 1940 Mussolini, annunciando la dichiarazione di guerra, spronò i suoi generali ad attaccare sulle Alpi marittime contro i francesi e in Libia contro gli inglesi.

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L’avanzata italiana

Governatore della Libia era il maresciallo dell’Aria Italo Balbo, già quadrunviro della Marcia su Roma e grande pioniere del volo italiano. Padre putativo dell’Aeronautica militare italiana, durante gli anni Trenta fu il protagonista di numerose trasvolate e crociere oceaniche, da Orbetello a Rio de Janeiro, poi da Roma a New York e Chicago. Mussolini, invidioso della popolarità dell’aviatore e timoroso delle possibili ambizioni antagoniste di Balbo, lo aveva mandato in una prigione dorata a Tripoli. Qui egli amministrò in maniera efficiente la regione sabbiosa, costruendo la costiera via Balbia e chiamando dalla Penisola 30.000 coloni per trasformare il deserto in piantagioni. Tripoli diventava così una bella e ridente città del Mediterraneo, centro nevralgico di importanti traffici e collegamenti con la Madrepatria.

Il maresciallo come politico e come comandante militare si lanciò in prima fila nei combattimenti. In un’azione di guerra il 28 giugno Balbo partì da Derna con il suo Savoia Marchetti 79, quando sul cielo di Tobruch, l’incrociatore San Giorgio aprì il fuoco e squarciò l’aereo su cui volava. La guerra per l’Italia si apriva con un grave lutto, quello di uno degli uomini più rappresentativi delle forze armate e del regime. Una fine tragica, avvolta nel mistero. Balbo troppo ambizioso e ribelle per restare nell’ombra del capo del fascismo. Un uomo scomodo tra i gerarchi e troppo irriverente verso l’ortodossia totalitaria, perché amico degli ebrei. Per Mussolini, l’unico capace realmente, per capacità e carisma, di metterlo fuori gioco e prenderne il posto. Per il suo alto senso dell’onore e della lealtà, fu rimpianto anche dai suoi nemici.

In sua sostituzione da Roma venne inviato come comandante del fronte libico il generale Rodolfo Graziani, veterano delle campagne africane fin dal lontano 1908. Negli anni Venti impegnato quale governatore della Libia nella cruenta repressione del ribellismo arabo, nel 1937 si era impegnato con rigore all’espiazione delle bande abissine in Etiopia e si era fatto una cattiva reputazione agli occhi dei locali, per i suoi metodi quanto mai brutali e selvaggi. Il Duce gli ordinò di attaccare, affermando che non era necessario arrivare a El Cairo, l’importante era intervenire nello sforzo bellico, perché la pace era alle porte e dopo la Francia anche la Gran Bretagna avrebbe presto capitolato. A Roma serviva solo l’eticchetta di combattente per collocarsi di diritto al fianco della Germania, al momento di salire sul carro dei vincitori.

Il 15 settembre le truppe italiane iniziarono l’avanzata a piedi, a tappe forzate di 40 km al giorno nel deserto. All’esercito non era fornito neanche un abbigliamento adeguato, se si volevano utilizzare mezzi di trasporto, bisognava chiederli a privati, perchè quelli militari erano in numero limitato. Per gli approvvigionamenti delle armi vennero ripuliti i musei: si usava il fucile del 1891, la mitragliatrice del 1914 e i cannoni delle battaglie dell’Isonzo. L’avanzata risultava faticosa anche con i carri armati, denominati dai nemici «mini tank», dagli italiani «scatole di sardine». Tali mezzi, piccoli, scomodi, deboli e lenti avevano in dotazione semplici mitragliatrici, buone solo a spaventare le piccole tribù africane sugli altipiani etiopici, non certo per uno scontro alla pari con le truppe britanniche in campo aperto. I soldati italiani sfiniti raggiunsero Sollum e Sidi El-Barrani, impegnandosi in opere di trinceramento. Il comando britannico del Medio Oriente del generale Archibald Wavell ordinò al generale Richard O’Connor il contrattacco; il 9 dicembre iniziò la potente offensiva di appena 30.000 uomini, coperta dalla buona copertura aerea della Raf.

Per l’Italia iniziava il momento critico; le difese di frontiera del forte Capuzzo erano inesistenti, i soldati non potevano neanche fuggire, per l’assenza dei mezzi. I britannici avanzarono spediti in Cirenaica, occupando Bardia e gli importantissimi porti di Tobruch e di Bengasi. La regione era perduta, la linea si stabilì quindi prima ad Agedabia, poi ad El-Agheila. Gli attaccanti non si fermarono per ragioni militari, ma solo perché i rifornimenti non erano veloci quanto l’avanzata. Il comando italiano era in crisi, il generale Annibale Bergonzoli venne catturato. Graziani venne deposto e sostituito dal generale Italo Gariboldi. Sul mare la situazione non cambiava; per i convogli la distanza era breve prima di raggiungere i porti libici, ma la caccia della Raf non aveva pietà. Nel cielo la situazione era catastrofica perché i velivoli non erano adatti al deserto e gli aeroporti sabbiosi. Il radar era inesistente, non vi era alcuna collaborazione tra flotta aerea e marina, fattore che provocava spesso, per errore, scontri tra le stesse Regia Marina e Regia Aeronautica.

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La pista della Volpe

Mussolini, cosciente del profondo insuccesso che vedeva l’Italia ormai completamente fuori gioco in Libia, chiese nel gennaio del 1941 aiuto all’alleato Hitler, che inviò dal mese successivo un’ingente armata di soldati ben addestrati e ben equipaggiati: il Deutsche Afrika Korps. Esso aveva mezzi a sufficienza e idonei al combattimento nel deserto; i suoi uomini inoltre non conoscevano la sconfitta, come non la conosceva il loro nuovo comandante, il tenente generale Erwin Rommel, grande protagonista della Grande Guerra e della campagna di Francia. Questi aveva 49 anni, non aveva nessuna esperienza di combattimenti in Africa, ma aveva già in mente un piano e grandi manovre da attuare. Per le operazioni parlava direttamente con Roma, scavalcando Gariboldi, che in teoria era il comandante supremo in Libia. Per il generale tedesco il fattore principale era la rapidità e la sorpresa, elementi necessari per raggiungere e occupare Suez e il Medio Oriente. Senza ordini precisi, l’avanzata ebbe inizio. Vennero liberate in pochi giorni El Agheila e Bengasi; senza rendersene conto si trovò catturato anche O’Connor, insieme al suo Stato maggiore. Le truppe britanniche iniziarono caoticamente la ritirata, lasciando comunque un buon presidio a Tobruch. Esse già risultarono affascinate e atterrite dal mito che si stava costruendo intorno al loro nuovo avversario: la «Volpe del deserto».

Intanto la Germania stava attaccando l’Unione Sovietica e tatticamente i due fronti si trovavano associati per la realizzazione dell’avanzata a «doppia tenaglia» verso Est. La veloce spinta in avanti portò Rommel ad accelerare ancor più il suo cammino; al contrario Gariboldi avrebbe preferito fermarsi per orientarsi sui prossimi obiettivi. Il rapporto di forza era a svantaggio dell’italiano e non venne ascoltato. I tedeschi proseguirono quindi senza sosta e i soldati italiani con marce forzate tentarono di tenete il ritmo dell’avanzata. Il grosso delle truppe era a piedi, i pochi mezzi a disposizione erano quelli civili prestati dai coloni.

Intanto in Africa orientale l’esercito italiano fu sconfitto e si arrese con dignità e onore dopo insostenibili scontri. All’Amba Alagi Amedeo d’Aosta, viceré d’Etiopia, dopo un’ultima disperata difesa si consegnò ai britannici, dove ricevette l’onore delle armi dai reparti inglesi vincitori. Morirà nel marzo del 1942 in prigionia a Nairobi in Kenya, sepolto con solenni esequie militari.

Nel frattempo nel Mediterraneo la situazione iniziava a migliorare. Fino all’arrivo dei tedeschi, Malta la faceva da padrona: la sua base navale e aerea bloccava tutti i convogli che univano i porti libici all’Italia. Dalla primavera del 1941 le truppe della Luftwaffe, dislocate in Sicilia al comando del maresciallo Albert Kesselring, unite ai forti bombardamenti italiani, obbligarono Londra a trasferire altrove il grosso delle truppe maltesi, tanto che si temette l’occupazione dell’isola, che in mano inglese si presentava come una spina nel fianco dei progetti di Rommel. Questo stato di cose era a tutto vantaggio dei collegamenti italiani con la Libia. I rifornimenti per mare passavano ora regolarmente, migliorando ulteriormente la condizione dell’Asse in Africa.

 

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Le manovre di stazionamento

La «Volpe del deserto» continuava la veloce avanzata, liberò la Cirenaica e raggiunse Sollum, superando poi il confine con l’Egitto, benché non avesse ricevuto ordini in proposito. La sua esperienza, maturata nelle pianure francesi, nei boschi rumeni e sulle Alpi italiane durante la Grande Guerra e in lunghi anni di studio successivi, aveva dimostrato come l’azione bellica ha bisogno di due fattori per garantire risultati veloci e duraturi: la rapidità e la sorpresa. Il titolo del suo capolavoro letterario, che lo rese famoso in patria e all’estero a metà degli anni Trenta, non poteva essere più eloquente: Fanteria all’attacco. L’abilità tattica del generale era composta sia da astuta intelligenza nel preparare le offensive, sia dalla sua onnipresenza sul campo. Egli non desiderava ricevere bollettini dal fronte, era lui a scriverli per Berlino direttamente dai campi di battaglia. La sua «cicogna» volava costantemente sui Panzer all’attacco, rendendo subito chiara la situazione all’interno degli stessi scontri. Questa agilità di manovra rendeva Rommel capace di eventuali ritocchi fulminei d’improvvisazione sul campo, consacrando la sua tattica come opposta alla classica strategia da tavolino. Benché l’avanzata risultasse sbaragliante, la città fortificata di Tobruch rimaneva inespugnabile, anche se accerchiata e bombardata di continuo, dando inizio alla leggenda dei cosiddetti «Topi del deserto» britannici.

Nel frattempo Mussolini richiamò Gariboldi, che venne sostituito dal generale Ettore Bastico, a cui piacevano meno del precedente le precipitose corse del collega tedesco. Cambio della guardia anche ad Alessandria, Churchill richiamò Wavell e inviò al suo posto Claude Auchinleck. In giugno l’8^ Armata con il nuovo comandante iniziò un contrattacco insistente; con grandi manovre in Marmarica l’Asse perse di nuovo Bengasi e la Cirenaica, ma gli invasori vennero fermati in tempo, acquietando per mesi i due eserciti. Su Malta continuavano intanto i bombardamenti, ma il dominio britannico del mare era costante grazie alle potenti postazioni di Gibilterra e Alessandria alle due uniche imboccature del Mediterraneo. Proprio il porto egiziano comunque fu il teatro di una micidiale azione di astuzia della Regia Marina. Il 20 dicembre due «maiali», mezzi d’assalto subacquei italiani, entrarono nel porto e fecero saltare una grossa petroliera e due corazzate la Valiant e la Queen Elisabeth, ammiraglie della Royal Navy. Tale situazione portava la flotta italiana in superiorità numerica sui mari, ma la situazione era ancora critica. L’Italia aveva belle navi ma il radar non vi era istallato e le comunicazioni erano precarie; l’aviazione aveva solo il morse per collegarsi con la terra ferma; di conseguenza le battaglie sul mare erano combattute ancora in profondo svantaggio tecnico. Non mancarono le azioni eroiche e le dimostrazioni di valore, ma la superiorità tecnica e numerica dei britannici risultava sempre preponderante.

 

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La grande avanzata verso Suez

Intanto il grosso della flotta aerea tedesca venne di nuovo riportata nel Mediterraneo, visto che sul fronte russo era iniziata la cattiva stagione. Gli attacchi su Malta si susseguivano senza tregua. Mussolini, cosciente dell’importanza dell’isola, propose a Hitler un piano per la sua conquista, ma la risposta fu negativa. Benché il piano fosse stato bocciato, le navi italiane non trovavano più problemi nella navigazione; di conseguenza l’armata di Rommel risultava sempre ben equipaggiata per la nuova avanzata, la cui portata sembrava sufficiente a occupare Suez e isolare la Gran Bretagna dal suo impero. La «Volpe del deserto» non riscontrò difficoltà nel proseguire, anche se si ritrovava a comandare più italiani (privi di mezzi meccanizzati) che tedeschi. Egli supervisionava sempre le azioni di persona, pronto in ogni circostanza a improvvisare. Senza il consenso di Mussolini riprese Bengasi, catturando anche le scorte inglesi, utilissime per proseguire. In giugno venne conquistata la grossa postazione francese di Bir Hakeim. Anche Tobruch continuava a essere il bersaglio di martellanti attacchi. Il 20 giugno anche il porto della città venne preso, cogliendo i britannici di sorpresa e facendo prigionieri sei alti generali con i loro interi reparti. Anche qui si ottenne un enorme bottino di rifornimenti, di cibo e di combustibile, indispensabile per l’avanzata nel deserto.

Concluso l’assedio di Tobruch, il generale tedesco aveva tutte le carte in regola per procedere ancora più spedito verso il miraggio della vittoria: Suez. Al contrario i nemici erano nel dubbio se contrattaccare subito l’Asse o ritirarsi e bloccare più indietro gli italo-tedeschi, sperando di trovarli più stanchi e logorati dalla lunga corsa. L’indecisione favorì la «Volpe del deserto» che avanzava, favorita dalla passività inglese. In luglio Rommel raggiunse El Alamein, privo però di ulteriore carburante e lontano dai propri porti di rifornimento. Al contrario Auchinleck era vicino alle proprie basi. Alessandria distava solo 60 chilometri dal fronte e sembrava ormai a portata di mano per i tedeschi.

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Il fronte di El Alamein

Mussolini che vedeva già Alessandria conquistata, arrivò in Libia e si preparò a entrare vittorioso nella città, avendo già deciso anche le cariche politiche da assegnare per la nuova provincia. Però non aveva fatto i conti con la stagnazione del fronte di El Alamein e dopo un’attesa vana, venne obbligato a tornare a Roma. Intanto Göring richiamava gli aerei dalla Sicilia in Russia e Rommel per mala sorte divenne la vittima dell’interdipendenza di più fronti. Ciò favoriva Malta, che ritornava un’ottima base per l’ammiraglio Andrew Cunningham, che iniziava subito il piano per affondare i carichi, necessari per continuare l’avanzata dell’Asse. A El Alamein lo scontro aveva intanto inizio: Auchinleck poteva contare su 150 carri armati dell’ultimo modello, Rommel ne aveva 90, di cui 30 italiani; per di più il carburante continuava a non arrivare e le postazioni dei britannici erano meglio difese. La «Volpe del deserto» in estate tentò ugualmente l’attacco, ma le linee avversarie resistevano. Dall’Europa arrivavano manipoli di uomini e due brigate paracadutiste in piena efficienza, la tedesca Ramke e l’italiana Folgore. Quest’ultima era stata addestrata per occupare Malta, invece si trovava a piedi, senza mezzi nel deserto, a fare da rincalzo agli altri reparti di fanteria. La zona di El Alamein, larga appena 60 chilometri, si estendeva tra la depressione di El Qattara e il mare, presentandosi come una trappola per le truppe dell’Asse. Rommel si trovava isolato dalla linea di rifornimento lunga oltre 1.000 chilometri. Intanto gli italiani reggevano fino alla distruzione nella fortezza isolata di Giarabub.

 

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La Faina contro la Volpe

Prima di fare una visita a Stalin per discutere del «Secondo fronte», il 30 luglio arrivò al Cairo Churchill. Questi rimosse Auchinleck, benché avesse vinto la battaglia difensiva, e al suo posto nominò quale comandante del Medio Oriente il maresciallo Harold Alexander e mise a capo dell’8^ Armata il generale Bernard Law Montgomery. Il nuovo comandante dei «Topi del deserto», capì che le truppe inglesi non avevano bisogno di una nuova organizzazione, che di per sé era buona. Non vi erano problemi di equipaggiamento, dopo gli ultimi invii dall’America, o di struttura, che aveva retto bene a El Alamein contro i tedeschi, piuttosto era fondamentale creare un’immagine in contrapposizione al condottiero germanico, che più dei carri armati aveva creato scompiglio in Egitto. Se Auchinleck aveva emanato solo dispacci per sminuire la figura dell’avversario, il suo successore inventò su se stesso un personaggio da contrapporre a Rommel. Quest’ultimo indossava il cappello con gli occhiali di plastica (tra l’altro preda bellica, sottratti a un generale inglese) e un cappotto scuro, Montgomery gli contrappone prima il cappellone australiano e poi il basco nero dei carristi, un maglione e un corto pastrano, ben presto conosciuto come «montgomery». Così nacque la leggenda della «Faina». I nuovi ordini erano brevi e chiari: niente ritirata. In agosto preparò una trappola a Rommel, che poteva disporre di soli 443 carri, tentando l’ultimo attacco per accerchiare le truppe sulla costa, ma i britannici possedevano 713 nuovissimi carri Sherman, più altri 222 di riserva. Limitandosi a perfezionare il piano di battaglia del predecessore Auchinleck, l’8^ Armata aveva tutto l’equipaggiamento in condizione eccellente, non aveva carenze di acqua e di cibo e nei cieli regnava la Raf.

Rommel intanto parlava ancora di attacco sul Cairo e il 30 agosto si spingeva verso i campi minati, di cui gli sono state fatte ritrovare volutamente mappe false dagli inglesi. I paracadutisti cercarono invano nel deserto di creare un passaggio, ma venivano bloccati dal fuoco dell’artiglieria nemica. Il 3 settembre Rommel ordinò la ritirata dopo la disastrosa disfatta che lo riportava sulle linee di partenza. Dopo un periodo molto estenuante, il generale venne richiamato a Berlino per curarsi le malattie contratte nel deserto. Hitler e Göring gli promisero rispettivamente un grosso quantitativo di nuovi carri e la protezione aerea. Di reale però ci fu solo una stretta di mano, la nomina e il bastone di feldmaresciallo. La megalomania  del dittatore tedesco portava a credere nei presupposti vincenti e nelle speranze per la sua doppia tenaglia, tra Stalingrado e l’Egitto, che avrebbe dovuto sbaragliare e atterrire il mondo. I suoi sogni annebbiavano la realtà: l’impresa e in generale i suoi piani erano divenuti pura utopia.

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Il principio della fine

Intanto da Mosca Stalin chiedeva con insistenza ai governi inglese e americano di aprire un decisivo fronte in Francia, ma Churchill lo rassicurò, elogiando le caratteristiche delle azioni in Africa e soprattutto di uno sbarco in Marocco a opera degli statunitensi. Il leader sovietico sembrava calmato, ma non mollava nelle sue decisioni, forte dell’immane sforzo che il suo popolo compieva ogni giorno contro il grosso delle Armate tedesche. Il primo ministro britannico ordinò quindi ai suoi uomini di attaccare in settembre da El Alamein. Montgomery fece comprendere che a ottobre l’attacco avrebbe avuto un maggiore il successo, garantendo una più rapida ritirata e la cacciata di Rommel dal Nord Africa.

Il 23 ottobre con notte di luna piena partiva l’azione, l’operazione «Lightfoot» che si caratterizzava subito per la notevole preponderanza britannica di mezzi e di uomini sulle esili linee italo-tedesche, comandate provvisoriamente in assenza di Rommel da due validi quanto sfortunati generali, comandanti di truppe corazzate: Georg Stumme, che però morì di infarto, e Wilhelm Von Thoma, che il 4 novembre si arrese agli inglesi.

Intanto nella parte occidentale dello stesso continente iniziava l’operazione «Torch» agli ordini del tenente generale Dwinght David Eisenhower, che non aveva mai comandato in battaglia, ma che aveva a disposizione ed era alla testa di un notevole contingente. Lo sbarco non trovò nessun ostacolo ad Algeri e a Casablanca, una modesta difesa a Orario da parte dei soldati francesi fedeli a Vichy. «Ike», uomo di caserma non molto colto di questioni politiche, si accorse presto di essere entrato nel groviglio diplomatico francese, che vedeva contrapporsi i generali Charles De Gaulle a Londra (ma con il suo esercito combattente nelle colonie a capo di Philippe Leclerc), Philippe Pétain sempre più succube dei nazisti, mentre l’ammiraglio François Darlan e il generale Henri Giraud in posizione alquanto altalenante. Eisenhower si trovò arbitro delle controversie, ma allo stesso tempo continuava le operazioni di pressione sui tedeschi, anche grazie alla grinta e capacità bellica del suoi generali subalterni: George Smith Patton e Omar Bradley.

Nel gennaio 1943 a Casablanca si aprì una conferenza tra Churchill e Roosevelt; Stalin non era presente, ma chiedeva ancora con insistenza un fronte a Occidente. Nella riunione marocchina venne fissato per il 1944, uno sbarco in Francia, ma si sottolineava anche quello prossimo in Italia, definita ventre molle dell’Asse. In questa circostanza venne approvata anche la proposta di resa senza condizioni per le potenze nemiche, fatta esclusione dell’Italia, privilegio che avrebbe potuto favorire una sua prossima defezione dalle controversie

Intanto Tripoli cadde in gennaio e così tramontava l’avventura di Rommel in Africa; in maggio fu la volta di Tunisi, con la resa di tutte le forze comandate dall’abile maresciallo d’Italia Giovanni Messe, con l’abbandono di tutte le speranze africane: tutto era pronto per sfidare li continente europeo!

 

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