La campagna di Russia
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Russia, terra di conquista
Durante i secoli le terre dell’Est sono sempre state oggetto di ripetuti attacchi; nel 1242 l’ordine germanico dei cavalieri teutonici attaccò la Russia, ma essa sotto il comando del giovane quanto abile Aleksandr Nevskij si impose nella battaglia del lago ghiacciato Peipus; gli invasori, di gran lunga meglio armati, dovettero ripiegare. Ancora nel 1704, Carlo VII di Svezia avanzò attraverso la Carelia, ma l’imperatore Pietro il Grande organizzò il contrattacco e annientò l’avanzata svedese. Nel 1812 fu il turno della Francia: le armate di Napoleone Bonaparte, dopo aver sgominato mezza Europa avanzarono in direzione di Mosca, che però le accolse con fiamme e miseria. I conquistatori dovettero ritirarsi per salvare la pelle. Ancora l’esercito tedesco nel 1914 riprovò nell’impresa: il Kaiser Guglielmo II ordinò l’avanzata. Il popolo russo si trovava schiacciato dall’invasore e dalle lotte interne; solo la repentina capitolazione del Reich, permise la restituzione della ricca Ucraina, anche se dovette cedere territori dopo la guerra polacco-sovietica del 1920-21, che recuperò nel 1939 a seguito del protocollo segreto al patto di non aggressione.
La domanda che ci si pone é quindi, perché la Russia è stata soggetta a così tanti attacchi? Perché ha suscitato tanto l’interesse nei popoli europei in espansione? La risposta è chiara. La perpetua ricerca del Lebensraum. Basta osservare la fisionomia della Russia e si spiegano i molti e ripetuti interessi verso le lande dell’Est europeo. Essa occupa 1/6 della superficie terrestre, nel quale si ha una ricchezza smisurata di materie prime, a partire dall’oro e l’argento fino ad arrivare al rame, al ferro, al legname, al carbone, al petrolio. Le immense pianure sono miniere di generi alimentari, tra cui il grano. Anche l’allevamento è florido, producendo ottima carne e calda lana. I Russi (193 milioni nel 1941) erano la fusione di innumerevoli culture, diverse tra loro, ma con il tempo unite in un medesimo spirito nazionale. Non interessava se fossero lapponi, eschimesi, ucraini, armeni, curdi, turcomannni o mongoli. Erano tutti un solo popolo e amavano tutti allo stesso modo la loro terra. Nel 1941 come nel passato, tale zona, composta dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, faceva gola anche a Hitler, che nel Mein Kampf aveva proclamato: «Quando parliamo di nuovi territori dobbiamo pensare alla Russia, il destino stesso ci indica quella via».
L’operazione «Barbarossa»
Per la completa conquista dell’Est, bisognava prima impossessarsi delle terre confinanti e di tutte quelle nazioni che si frapponevano. In questo senso il pieno controllo dei Balcani era strategico e vitale. Essi risultavano molto importanti per la geopolitica, ma anche necessari economicamente: oltre ai vasti campi di grano, l’Ungheria aveva la bauxite, la Romania il petrolio, la Bulgaria fondamentali basi marittime sul Mar Nero. Nel marzo del 1941, con impegni diplomatici e tradimenti di capi di Stato, tutti questi paesi erano passati nell’orbita di Berlino. Mancavano solo la Iugoslavia e la Grecia. L’Italia si incaricò di occuparsi di quest’ultima. Il Duce inneggiò alla vittoria: «Spezzeremo le reni alla Grecia». Non andò così. L’attacco fu un fallimento, anzi i soldati ellenici, con le loro buffe divise, contrattaccarono e entrarono in Albania. Hitler, infuriato per l’umiliante impresa e per il ritardo dell’attacco verso Mosca, inviò un ultimatum alle piccole comunità di resistenza, che in ogni caso mantennero le loro posizione. La Germania non ebbe pietà, aprì l’attacco e devastò intere regioni. Anche un corpo di spedizione inglese, venuto in aiuto agli ellenici, fu obbligato a ripiegare in Egitto. A fine aprile la svastica sventolava su Atene.
L’Europa orientale ormai era tutta nelle mani tedesche e quindi ora era possibile l’avanzata contro l’Unione Sovietica. Il 22 giugno su un fronte che partiva dal Mar Nero e arrivava al Baltico vi fu un attacco multiplo, integrato anche dalle truppe amiche della Finlandia a Nord. 12 milioni di soldati dell’Asse marciavano, avendo tre obiettivi: Leningrado, Mosca e Kiev. Il 7 luglio Fedor von Bock raggiunse Smolensk, praticamente l’ultimo baluardo prima di Mosca, Gerd von Rundstedt completava invece l’occupazione dell’Ucraina.
La Grande guerra patriottica
L’avanzata dei reparti tedeschi si presentava fulminea e devastante. Tutto ciò portava a ritenere una vittoria come vicina, ma la situazione era tuttavia diversa. L’esercito tedesco, come nel caso inglese, si trovava di fronte a un popolo, che era disposto a perdere la terra, ma non la propria indipendenza. Dopo un primo disorientamento, causato dall’impreparazione bellica e alla soverchiante tattica d’attacco, le truppe sovietiche indietreggiavano, ma allo stesso tempo logoravano il nemico. Prima di fuggire bruciarono e distrussero tutto ciò che poteva essere utile all’invasore. I pozzi petroliferi vennero resi inservibili, centrali elettriche e dighe, ultimate dopo anni di lavoro, vennero trasformate in polvere. I carri armati tedeschi, se nelle vaste pianure trovavano campo aperto, si rivelavano inservibili in città, perché ogni cittadino e non solo l’esercito resisteva nelle strade e nelle case. Dovunque era possibile distogliere e decimare gli invasori, anche con combattimenti a corpo a corpo. Le città vennero trasformate in roccaforti per i trinceramenti e il sabotaggio. Odessa e Sebastopoli inchiodarono per mesi l’11^ Armata del generale Erich von Manstein, prima di raggiungere il Mar Nero. La tecnica della terra bruciata, utilizzata contro Napoleone, venne impiegata di nuovo con ottimi risultati. Tutto il popolo, dai bambini agli anziani, chiamato a raccolta dai discorsi patriottici di Stalin, si impegnò nello sforzo bellico. Arrivato l’inverno, le parti si scambiarono, i tedeschi iniziarono a difendersi, perché i sovietici iniziavano il contrattacco. Quello che era accaduto centocinquanta anni prima venne replicato. Se i tedeschi avessero letto «Guerra e pace», forse avrebbero previsto la loro sorte, avrebbero anche loro conosciuto la sconfitta e la morte. La città di Mosca, distante solo 30 chilometri dal fronte, venne difesa con insistenza e nessun soldato tedesco vi riuscì a entrare da invasore.
Il contrattacco del generale Georgy Zhukov con nuove truppe provenienti dalla Siberia, addestrate al freddo e quindi adatte al tipo di guerra in cui vennero lanciate, non solo difesero la loro capitale, ma iniziarono anche un attacco micidiale contro le stanche e logorate divisioni tedesche.
L’assedio di Leningrado
A Nord del paese la città di Leningrado, antica capitale dell’impero zarista, era un succulento obiettivo per Hitler: nevralgica base navale, fiorenti industrie a poche miglia dalle linee tedesche e finniche. La città sin dall’inizio dell’avanzata era stata bersaglio di una serie di spietati bombardamenti, che portarono all’assedio del centro abitato e al suo completo isolamento dal resto della nazione. I tedeschi inviarono un ultimatum di resa, ma non ebbero risposta, avviando così un assedio di quasi 17 mesi, esempio senza precedenti. Anche qui arrivò l’inverno, ma non fu certo un alleato dei sovietici: i 30° sotto zero risultavano un nemico micidiale per la popolazione, che combatteva contro il freddo, la carestia e contro le malattie. All’ordine del giorno era la mancanza di cibo, di acqua, di materie prime e delle armi per difendersi. Il razionamento dei generi alimentari era drastico: 300 grammi di pane per un operaio, per il resto della popolazione la razione era ridotta ancora della metà. Cresceva il numero di morti, per questo si facevano fosse comuni per isolare i cadaveri, portatori di malattie e infezioni, ma all’ordine del giorno erano anche i casi di cannibalismo o di alimentazione con tutto ciò che si poteva reperire, come la colla dalle pareti. Intanto i bombardamenti continuavano senza sosta, la distruzione era quasi completa, le incessanti azioni punitive per distruggere l’animo e il morale risultavano quotidiane. A tutto ciò si contrapponeva il forte impegno della popolazione, sempre al lavoro o nelle trincee difensive che circondavano il centro abitato.
Ad Est della città c’era il lago Ladoga, in questo periodo ghiacciato, e alla sua estremità orientale restava ancora una parte di costa in mano russa. Per riallacciare i contatti, sulla distesa solida vennero costruite strade e una ferrovie per collegare la città con la capitale. I tedeschi, accortisi della situazione e della via di comunicazione ancora in mano del nemico, iniziarono un martellante bombardamento anche su questa ultima via di soccorso, ma le comunicazioni resistettero. A Leningrado arrivavano ogni giorno cibo e rifornimenti, da essa partivano i malati e gli anziani. Il lago salvò la città anche in primavera, quando iniziò a scongelarsi, permettendo di farla ritornare alla vita e continuare la lotta in maniera attiva con impegnativi scontri ai danni degli assedianti che dopo l’inverno erano in forte difficoltà. Intanto da occidente anche gli alleati britannici e statunitensi rifornivano con continuità Leningrado attraverso le loro flotte, forzando il blocco tedesco.
Gli scontri nel Caucaso
Altro vitale obiettivo di Hitler era la conquista dei campi petroliferi del Mar Caspio. Per raggiungerli però non solo era necessario superare il montuoso Caucaso, ma anche catturare la città di Stalingrado, dividere il Sud della nazione da Mosca e isolare e paralizzare l’intera Russia. Sul fronte meridionale facevano manforte ai tedeschi, truppe italiane (dello CSIR, divenuta poi ARMIR e comandata dal generale Giovanni Messe), rumene, ungheresi e di tutte le nazioni che ideologicamente con spirito di crociata volevano sconfiggere la Russia atea e bolscevica. Dopo un anno di aspri combattimenti in Ucraina, nel maggio del 1942, dopo aver superato anche la Crimea, la città di Rostov e il fiume Don si arrivò ai sobborghi della città, ma le zone raggiunte erano tutte distrutte. Conquistare Stalingrado significava bloccare i rifornimenti alleati dalla Persia e spezzare così in due la forza sovietica, ma la situazione appariva più difficile del previsto. A Sud i monti restavano invalicabili e Stalingrado resisteva agli incessanti bombardamenti e ai feroci attacchi che raggiunsero il centro abitato. La città si tramutò in un labirinto di assalti e di azioni di sorpresa dei russi. I tedeschi non riuscirono più a tenere in pugno la situazione e rapidamente si scompaginarono, mentre l’inverno sopraggiungeva, più pericoloso che mai.
Intanto in Africa la situazione andava al peggio per l’Asse e i russi usufruirono dell’importanza della cooperazione tra più fronti nelle operazioni multiple contro i nemici. L’attacco sovietico iniziò in dicembre e accerchiò i tedeschi in una sacca ricongiungendosi con i loro compagni liberatori. In tal maniera i tedeschi in armi erano completamente scacciati dalle zone del Caucaso: il generale Friedrich Von Paulus, comandante supremo delle forze tedesche nella regione, venne catturato il 31 gennaio. Questi, che aveva minacciato di far uccidere la famiglia a chiunque si fosse arreso, ora vedeva nel suo futuro la stessa sorte per mano di Hitler, che lo aveva da pochi giorni nominato feldmaresciallo. Per tale motivo, il dittatore nei suoi consueti comunicati maledì quelli che lo avevano tradito e si impose di non nominare più nessun generale al massimo grado delle gerarchie militari.
La battaglia di Stalingrado rappresentò un evento epocale, forse il più significativo di tutta la guerra. Sul fronte maggiormente impegnativo, dove la potenza tedesca indirizzò il massimo delle sue risorse, degli uomini e dei materiali, venne respinta una volta per tutte la continua avanzata del Reich. Si calcola che la sola Armata rossa sul fronte dell’Est causò ai tedeschi circa l’80% delle perdite complessive di tutta la Seconda guerra mondiale. Dopo Stalingrado le truppe dell’Asse non solo cessarono di avanzare in territorio straniero, ma da quel momento per le armate di Hitler iniziò una lunga e progressiva ritirata su ogni fronte, per essere poi ricacciati ben oltre i propri confini nazionali.