l settembre del 1943 è quasi per antonomasia identificato come il periodo più triste e drammatico della nostra Patria, almeno di quella relativa allo Stato unitario. In effetti gli eventi succedutisi in quel frangente hanno racchiuso in sé tutti gli elementi per un disfacimento morale e materiale del Paese. In parallelo però esso ha rappresentato, se pur tra mille contraddizioni e episodi discutibili, il brusco risveglio dal ciclo dispotico del fascismo in Italia.
L’annuncio dell’armistizio fu un evento grottesco, ai limiti del paradosso. Per i militari fu un frammisto di gioia e incertezza; lo sperato – ma non reale – epilogo di una guerra senza una sua condotta logica. Proprio per questi motivi è interessante valutarne in ogni suo minimo elemento la dinamica, i problemi posti e le possibili risoluzioni offerte a quegli uomini in divisa, per i quali i termini di valore, fedeltà e disciplina in quei giorni si confondevano tra le pieghe della rottura della linea di comando gerarchica e della discutibile fuga del Re, del Governo e del Comando supremo.
Uno studio in tale senso ce lo offre Massimo Coltrinari con il suo ultimo L’«8 settembre» in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre – 7 ottobre 1943. L’autore, che ha già ricostruito alcuni aspetti particolari del periodo considerato e dell’esperienza schipetara, mostra con una ricerca molto accurata l’evolversi di una tragedia che ha investito un’intera armata del Regio Esercito.
Il Regno d’Albania, costituitosi nel 1939, aveva rappresentato un’opportunità mancata, se essa voleva trovarsi nella logica del nazionalismo imperiale fascista. Alla vigilia dell’armistizio esso è ben guarnito da divisioni che sulla carta avrebbero ben figurato nei contesti africani o sovietici, dove la loro presenza sarebbe stata d’aiuto all’interno dello sforzo bellico complessivo. Eppure, non potendo sguarnire le delicate vie di comunicazioni dei Balcani minacciate dal ribellismo partigiano locale, temendo un possibile sbarco anglo-americano nella zona, nel settembre del 1943 nella regione trovava dislocazione l’intera 9ª Armata e il vertice del Gruppo d’Armate Est, il cui comandante, generale Ezio Rosi, risiedeva proprio a Tirana.
Sulla figura di Rosi ancora non si è discusso abbastanza, anche perché il suo precedente incarico come capo di Stato Maggiore dell’Esercito, nonché la sua pessima gestione del Gruppo d’Armate alle sue dipendenze, comando giudicato da alcuni addirittura inutile, sono elementi aggravanti sulle possibili responsabilità da imputargli relative a una mancata difesa dell’Albania dall’occupazione tedesca.
Sta di fatto che l’armistizio colse i comandi italiani al di là dell’Adriatico senza un obiettivo preciso. Rosi cercò di prendere tempo, sperando di barattare con i tedeschi quanto meno la sopravvivenza. L’esito di queste timide prese di posizioni furono il collasso del Gruppo d’Armate e una sorta di autonomia decisionale per i singoli Corpi, appartenenti alla 9ª Armata, il cui comandante, generale Lorenzo Dalmazzo, si rivelò più prudente del suo superiore nelle proprie relazioni con i referenti delle diverse forze in campo, ma nella sostanza ambiguo, debole e inefficace come Rosi.
Purtroppo la mancanza di coordinazione e il ritardo intercorso tra la dichiarazione di armistizio e la reazione delle divisioni italiane non solo ha permesso un primo deleterio sbandamento sul morale dei soldati, ma soprattutto ha favorito un efficace intervento tedesco in una zona che alla vigilia dell’8 settembre vedeva una irrisoria presenza germanica.
La speranza in un possibile sbarco alleato sulla riva orientale dell’Adriatico (azione caldeggiata da Churchill) e il tentativo, perlopiù vano, di portare i reparti sulla costa per un rapido imbarco e rimpatrio furono gli ostacoli per il mancato celere impiego dei mezzi e degli uomini. Il problema di fondo era e rimaneva capire se si voleva combattere ancora, scegliendo poi se onorare la vecchia alleanza con Berlino oppure osteggiarla, non tanto per gli ambigui propositi badogliani, ma per radicati e malfidati sospetti degli italiani per i «barbari del Nord».
Le scelte personali e collettive furono molte e variegate, motivate rispettivamente da sentiti ideali, da possibili vantaggi, da malintesi e da non assenti ingenuità. Le opportunità offerte non sempre si rivelarono reali, se una parte ingente dei soldati italiani si ritrovò dietro un reticolato come internati dei nazisti.
Ecco quindi, a titolo d’esempio, le differenti esperienze di alcune divisioni. La ”Brennero” trovò logico una volta rimpatriate dai tedeschi, accettare per lo più le offerte di collaborazione nella Repubblica sociale. La divisione “Arezzo” fu fatta tutta prigioniera. Le divisioni “Perugia” e “Puglie” che, nel tentativo di trovare un porto per il rimpatrio, vennero infiacchite dal disorientamento prima e dai continui attacchi mortali delle formazioni germaniche, a cui seppero tuttavia tenere testa, scrivendo un importante capitolo della storia della Resistenza italiana.
Per quanto riguarda la “Firenze”, comandata dal generale Arnaldo Azzi, disobbedendo all’ordine di Rosi di deporre le armi pesanti ai tedeschi, insieme a elementi sparuti delle divisioni “Arezzo”, “Brennero”, “Perugia”, “Ferrara” e “Parma”, riparò in montagna dove iniziò una logorante azione di guerriglia contro gli ex alleati. Il tipo di scontro bellico non era congeniale alle truppe italiane, che, seppur in collaborazione con le formazioni partigiane locali, dovettero alla spicciolata essere sciolte.
Tuttavia l’esperienza non fu vana, se il desiderio di reazione era nel frattempo avviato, tanto da dare vita in un secondo momento a rinnovate formazioni miste all’interno del Comando italiano truppe alla Montagna o dell’Esercito di Liberazione nazionale albanese, che parteciparono a tutta la campagna, fino alla liberazione di Tirana, in cui anche gli italiani entrarono da vincitori.
Anche in questa circostanza il soldato italiano, comandato da ufficiali privi di greche e di galloni argentati, quali il colonnello Fernando Raucci e i tenenti colonnelli Goffredo Zignani, Mario Barbi Cinti e Emilio Cirino, seppe essere più capace e valoroso dei suoi supremi comandanti, se essi portano il nome di Badoglio, Ambrosio, Roatta, Carboni e Rosi. Sta di fatto che quest’ultimo, dopo un tranquillo periodo di prigionia in un castello della Baviera, replicò alle accuse rivoltegli, adducendo la contraddittorietà degli ordini da Roma e la preponderanza di mezzi e preparazione politico-strategica dei tedeschi. Non sembra una difesa sufficiente, per giustificare un collasso di tali proporzioni, continuare a enfatizzare la superiorità della Wehrmacht o delle SS. Se Governo e Comando Supremo sono responsabili di non aver preparato militarmente l’armistizio, gli altri vertici militari lo sono, perché non hanno creato le condizioni, quando lo si poteva fare, per impedire la completa occupazione tedesca delle zone italiane.
Come conclude Coltrinari: «Sarebbe stato efficace in questi frangenti un addestramento ispirato alla capacità di iniziativa, alla autonoma decisione, alla disciplina delle intelligenze, alla chiarezza adamantina consequenziale tra compito e scopo, ed alla assunzione di responsabilità in base al proprio livello di comando». Invece i soldati furono lasciati senza guida, allo sbando, in balia degli eventi, delle emozioni e di una sofferta decisione, che per la stragrande maggioranza dei soldati ha significato una lunga e nerissima prigionia come schiavi del Terzo Reich