Il secolo della violenza

Il secolo della violenza

La storia del Novecento, forse mai in modo così travolgente rispetto agli altri secoli, risulta di continua riscrittura e frutto di sempre più eclettiche interpretazioni. Sarà per quel fluire incessante, che dalla “storia moderna” si è staccato in “storia contemporanea”, per raggiungere chissà quali altre innovative classificazioni, ma l’ultimo secolo, che ormai ci siamo chiusi alle spalle circa un decennio fa, appare un continuo catalizzatore di interessi e di ispirazioni.

Definito già “secolo breve”, “secolo lungo”, secolo della “fine della storia” o sintesi delle più variegate contraddizioni dei nostri tempi, esso è e rimane il periodo in cui si sono toccati gli antipodi umani, sintetizzati con Auschwitz o Hiroshima da una parte e con lo sbarco sula Luna o con la quasi raggiunta intelligenza artificiale dall’altra.

In questo vortice di fatti e considerazioni si inserisce il lavoro dell’abile storico britannico Niall Ferguson, di solide basi accademiche, ma con altrettanto spirito libero, capace di spaziare e innovare. Già autore di interessanti lavori sul capitalismo e sull’imperialismo britannico, questo professore di Harvard nel suo recente “Il secolo della violenza” descrive in modo molto accurato la sua personale interpretazione del Novecento. Partendo dalla constatazione che in esso vi è stata una concentrazione assoluta e relativa di guerre e di morti, egli cerca di inquadrarne gli eventi sotto un profilo socio-economico, sia sotto uno antropologico, dove le pulsioni animalesche dell’uomo non sembrano essere poi così lontane rispetto al puro raziocinio post-illuminista.

Ferguson trova dei riferimenti ricorrenti nei cento anni esaminati, incorniciando nella Mitteleuropa una regione quasi inevitabilmente soggetta a terremoti politici dai retroscena funesti, per via dei suoi gruppi molto radicati e variegati di ebrei, tedeschi, slavi etc. Ciò ovviamente non ha evitato al resto del mondo di vivere in modo tranquillo, se a partire dall’estremo oriente, fino ad arrivare alle nazioni più periferiche dei morenti imperi coloniali, l’odio, la vendetta e la cupidigia hanno portato coalizioni a scontrarsi in lotte bestiali, dove le armi tornano ad essere primitive come l’uso bellico dello stupro.

Massima attenzione è dedicata all’aspetto economico, dove le fluttuazioni delle obbligazioni e gli indici azionari sembrano essere alternativamente il barometro delle emozioni sociali oppure lo scollamento completo tra sogno e realtà. Interessante verificare che all’alba delle grandi sciagure, come la Prima guerra mondiale oppure la crisi del 1929, anche i più avvezzi rampolli della nobiltà capitalista potessero credere in lunghi anni di benessere e lauti profitti.

Simmetricamente, di fronte a cotanto dramma socio-economico le reazioni, a ben vedere, non sembrano poi del tutto differenti, se lo stesso autore, prendendosi gioco del lettore, prima presenta un programma reazionario e dai tratti liberticidi del 1933, per poi gettare la maschera. Sembra scritto da Adolf Hitler, quando invece si scopre che l’autore è invece il democraticissimo Franklin Delano Roosevelt!

Molta attenzione è data ai totalitarismi, come è ovvio, e altrettanto alle due guerre mondiali, dove le fratture socio-nazionali sono entrate in conflitto in modo maggiore e con più picchi ancora più cruenti. In proporzione poco spazio è dedicato al periodo successivo al 1945, ma nella logica bipolare della seconda metà del secolo i due ultimi capitoli inquadrano lo stesso le tappe fondamentali di quella lunga stagione. Seppur mai imboccando la via della guerra globale atomica, le due superpotenze hanno senza soluzione di continuità imbracciato, in via indiretta, le armi in lotte macroregionali di stampo post-coloniale di notevole crudezza. L’atroce cinismo dimostrato per nulla si declinava con le rispettive moralità autoimposte dalle democrazie, fossero esse occidentali o socialiste.

Nel complesso un ottimo libro di storia, forse con una sovrabbondanza di citazioni di “gente comune”, ma anch’esse sintomatiche di una chiave interpretativa fatta anche dal basso. Un po’ affrettate poi alcune osservazione dell’autore, che per esempio in una corale esaltazione di Winston Churchill, vorrebbero attribuire la lungimiranza di una parte del partito conservatore per una rapida alleanza anglo-franco-ceco-sovietica in funzione antitedesca già nel 1938.

Tuttavia una nuova occasione per parlare ancora di storia, soprattutto tentando di liberarsi di quelle goffe dispute tra revisionisti e antirevisionisti, che per esempio in Italia ancora non sempre permettono una serena e riflessiva analisi dell’ultimo secolo, di cui nel bene o nel male il nostro Paese si è vista una delle protagoniste principali della scena politica.

I soldati ebrei nell’esercito asburgico

I soldati ebrei nell’esercito asburgico

Nel periodo che si pone a cavallo tra l’età moderna e quella contemporanea le varie e successive corone assunte dagli Asburgo d’Austria rappresentarono la manifestazione dei numerosi popoli sudditi, spesso divisi tra loro per nazionalità, lingua, religione, usi e costumi. Questa situazione così variegata però non impedì di creare una certa omogeneità, che permettesse alle istituzioni imperiali e monarchiche di sopravvivere e mantenere un sufficiente equilibrio tra le varie condizioni sociopolitiche.

In questo contesto la popolazione ebraica fu, seppur sempre minoranza, una componente significativa distribuita a macchia di leopardo in numerose regioni dell’Impero. Non a caso la Mitteleuropa per secoli ha rappresentato la culla della cultura ebraica. Molti noti personaggi come Sigmund Freud , Franz Kafka o Joseph Roth ne sono l’esempio più lampante. Essi tuttavia non esauriscono certo quella notevole presenza urbana e provinciale che, dall’Adriatico alla Vistola, dalla pianura Padana ai Carpazi, ha contribuito a un’identità culturale e politica con epicentro città come Venezia, Trieste, Praga, Vienna, Budapest e Lublino.

Per tali motivi, è facile intuire che una volta avviata l’emancipazione israelita, ad opera del sovrano illuminato Giuseppe II, la componente ebraica dell’Impero trovò nelle Forze Armate un luogo dove poter esprimere le proprie competenze e il proprio attaccamento alla Patria multinazionale.

L’assimilazione non fu tuttavia un processo facile, né scontato, a maggior ragione nell’ambiente militare, piccolo mondo chiuso dove un radicamento conservatore ed elitario rappresentava la principale difesa della tradizione. Ecco perché contestualmente alla possibilità di accedere a ruoli e reparti, vi fu l’ostruzionismo degli alti comandi, tanto da relegare i primi israeliti in divisa a ruoli prevalentemente tecnici o amministrativi.

Ciò non significò un ostacolo tout court per gli ebrei, che trovarono – anche per la loro non comune preparazione culturale e professionale – nelle salmerie, nel treno e in alcuni ruoli logistici l’occasione per entrare a pieno titolo nei ranghi militari. Solo in un secondo momento, a partire dalle guerre napoleoniche, gli israeliti iniziarono a affluire anche nelle armi combattenti, in particolare nella fanteria. Con gli anni seguirono buone carriere, sia nel rango dei sottufficiali che degli ufficiali, via via fino a raggiungere anche i massimi gradi della scala gerarchica.

Ricorrenti furono però alcuni elementi caratteristici dell’essere ebreo, che implicavano delle situazioni non sempre favorevoli alla permanenza nell’esercito, come per esempio il radicamento geografico dei volontari e dei renitenti oppure la possibilità di praticare i culti mosaici.

Sin dai primi esempi di arruolamento, gli alti comandi asburgici avevano espresso più di una riserva sull’opportunità di accogliere ebrei, per via della possibile astinenza dal servizio nei giorni di festa, per il particolare regime alimentare imposto dai precetti e per una scarsa (o addirittura assente) assistenza religiosa di rabbini nelle caserme e nei reparti.

Nella pratica questi ostacoli, seppur limitanti in alcuni casi, a carattere generale non andarono a intaccare la partecipazione e l’efficienza dei soldati di fede ebraica, che nel più ampio disegno dell’emancipazione ed integrazione riuscirono a dimostrare la piena appartenenza civile di questo arlecchinesco Impero.

Per quanto riguarda invece la provenienza dei militari, vi fu una maggiore partecipazione ed adesione nei contesti urbani e in quelli occidentali. La Galizia, più legata a tradizioni contadine – non solo di provenienza ebraica – fu una di quelle aree dove il militarismo attecchì molto poco e dove furono diffusi metodi e pratiche per evitare l’arruolamento, quest’ultimo giudicato al pari di altre strade un modo per la più ampia assimilazione con i gentili, da molti israeliti ortodossi rifiutata. Per alcune comunità più rigide l’ingresso di un loro membro negli organi dello Stato rappresentava una perdita pari alla stessa morte.

Questi esempi tuttavia non pregiudicarono l’esperienza ebraica nelle Forze Armate, che in particolar modo tra gli ufficiali fu rappresentativa delle comunità esistenti. Con le guerre ottocentesche e con l’esperienza della Grande Guerra cadde anche lo stereotipo che voleva i giudei inetti e imboscati, tanto da preferire reparti defilati o mansioni nei distretti. Le battaglie offrirono ai più valorosi onori e promozioni sul campo, al pari dei loro concittadini di altra fede religiosa.

Tali episodi, oltre alla più completa adesione alla cittadinanza comune, rappresentarono il modo migliore per offuscare possibili derive antisemite. Come nel contesto italiano postunitario, anche l’Impero prima e la Duplice monarchia di Austria-Ungheria dal 1867 fu nella sostanza immune da accesi attacchi contro i cittadini ebrei. Esempio indicativo fu la presenza di oltre settanta rabbini militari durante la Prima guerra mondiale. In tutto ciò vi è una notevole somiglianza tra il Regio esercito italiano e l’Esercito imperiale (e regio) dove l’opportunità offerta a un israelita di divenire colonnello o generale non era preclusa a priori.

Con la caduta della Duplice monarchia nel 1918, questa esperienza iniziò a scemare, anche a causa della frattura politica e istituzionale verificatasi. L’avvento anche in Austria di regimi dittatoriali e poi l’occupazione nazista nel 1938 aprì un’altra pagina della storia mitteleuropea, crudele tanto che originò negli ebrei danubiani un motivo in più per rimpiangere il bel periodo imperiale (e regio).

Questa ricostruzione storica, molto accurata, è ora disponibile anche per il lettore italiano, con l’uscita del volume “I soldati ebrei nell’esercito asburgico” di Erwin A. Schmidl.

I militari italiani in Albania nel settembre 1943

I militari italiani in Albania nel settembre 1943

l settembre del 1943 è quasi per antonomasia identificato come il periodo più triste e drammatico della nostra Patria, almeno di quella relativa allo Stato unitario. In effetti gli eventi succedutisi in quel frangente hanno racchiuso in sé tutti gli elementi per un disfacimento morale e materiale del Paese. In parallelo però esso ha rappresentato, se pur tra mille contraddizioni e episodi discutibili, il brusco risveglio dal ciclo dispotico del fascismo in Italia.

L’annuncio dell’armistizio fu un evento grottesco, ai limiti del paradosso. Per i militari fu un frammisto di gioia e incertezza; lo sperato – ma non reale – epilogo di una guerra senza una sua condotta logica. Proprio per questi motivi è interessante valutarne in ogni suo minimo elemento la dinamica, i problemi posti e le possibili risoluzioni offerte a quegli uomini in divisa, per i quali i termini di valore, fedeltà e disciplina in quei giorni si confondevano tra le pieghe della rottura della linea di comando gerarchica e della discutibile fuga del Re, del Governo e del Comando supremo.

Uno studio in tale senso ce lo offre Massimo Coltrinari con il suo ultimo L’«8 settembre» in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre – 7 ottobre 1943. L’autore, che ha già ricostruito alcuni aspetti particolari del periodo considerato e dell’esperienza schipetara, mostra con una ricerca molto accurata l’evolversi di una tragedia che ha investito un’intera armata del Regio Esercito.

Il Regno d’Albania, costituitosi nel 1939, aveva rappresentato un’opportunità mancata, se essa voleva trovarsi nella logica del nazionalismo imperiale fascista. Alla vigilia dell’armistizio esso è ben guarnito da divisioni che sulla carta avrebbero ben figurato nei contesti africani o sovietici, dove la loro presenza sarebbe stata d’aiuto all’interno dello sforzo bellico complessivo. Eppure, non potendo sguarnire le delicate vie di comunicazioni dei Balcani minacciate dal ribellismo partigiano locale, temendo un possibile sbarco anglo-americano nella zona, nel settembre del 1943 nella regione trovava dislocazione l’intera 9ª Armata e il vertice del Gruppo d’Armate Est, il cui comandante, generale Ezio Rosi, risiedeva proprio a Tirana.

Sulla figura di Rosi ancora non si è discusso abbastanza, anche perché il suo precedente incarico come capo di Stato Maggiore dell’Esercito, nonché la sua pessima gestione del Gruppo d’Armate alle sue dipendenze, comando giudicato da alcuni addirittura inutile, sono elementi aggravanti sulle possibili responsabilità da imputargli relative a una mancata difesa dell’Albania dall’occupazione tedesca.

Sta di fatto che l’armistizio colse i comandi italiani al di là dell’Adriatico senza un obiettivo preciso. Rosi cercò di prendere tempo, sperando di barattare con i tedeschi quanto meno la sopravvivenza. L’esito di queste timide prese di posizioni furono il collasso del Gruppo d’Armate e una sorta di autonomia decisionale per i singoli Corpi, appartenenti alla 9ª Armata, il cui comandante, generale Lorenzo Dalmazzo, si rivelò più prudente del suo superiore nelle proprie relazioni con i referenti delle diverse forze in campo, ma nella sostanza ambiguo, debole e inefficace come Rosi.
Purtroppo la mancanza di coordinazione e il ritardo intercorso tra la dichiarazione di armistizio e la reazione delle divisioni italiane non solo ha permesso un primo deleterio sbandamento sul morale dei soldati, ma soprattutto ha favorito un efficace intervento tedesco in una zona che alla vigilia dell’8 settembre vedeva una irrisoria presenza germanica.

La speranza in un possibile sbarco alleato sulla riva orientale dell’Adriatico (azione caldeggiata da Churchill) e il tentativo, perlopiù vano, di portare i reparti sulla costa per un rapido imbarco e rimpatrio furono gli ostacoli per il mancato celere impiego dei mezzi e degli uomini. Il problema di fondo era e rimaneva capire se si voleva combattere ancora, scegliendo poi se onorare la vecchia alleanza con Berlino oppure osteggiarla, non tanto per gli ambigui propositi badogliani, ma per radicati e malfidati sospetti degli italiani per i «barbari del Nord».

Le scelte personali e collettive furono molte e variegate, motivate rispettivamente da sentiti ideali, da possibili vantaggi, da malintesi e da non assenti ingenuità. Le opportunità offerte non sempre si rivelarono reali, se una parte ingente dei soldati italiani si ritrovò dietro un reticolato come internati dei nazisti.

Ecco quindi, a titolo d’esempio, le differenti esperienze di alcune divisioni. La ”Brennero” trovò logico una volta rimpatriate dai tedeschi, accettare per lo più le offerte di collaborazione nella Repubblica sociale. La divisione “Arezzo” fu fatta tutta prigioniera. Le divisioni “Perugia” e “Puglie” che, nel tentativo di trovare un porto per il rimpatrio, vennero infiacchite dal disorientamento prima e dai continui attacchi mortali delle formazioni germaniche, a cui seppero tuttavia tenere testa, scrivendo un importante capitolo della storia della Resistenza italiana.

Per quanto riguarda la “Firenze”, comandata dal generale Arnaldo Azzi, disobbedendo all’ordine di Rosi di deporre le armi pesanti ai tedeschi, insieme a elementi sparuti delle divisioni “Arezzo”, “Brennero”, “Perugia”, “Ferrara” e “Parma”, riparò in montagna dove iniziò una logorante azione di guerriglia contro gli ex alleati. Il tipo di scontro bellico non era congeniale alle truppe italiane, che, seppur in collaborazione con le formazioni partigiane locali, dovettero alla spicciolata essere sciolte.

Tuttavia l’esperienza non fu vana, se il desiderio di reazione era nel frattempo avviato, tanto da dare vita in un secondo momento a rinnovate formazioni miste all’interno del Comando italiano truppe alla Montagna o dell’Esercito di Liberazione nazionale albanese, che parteciparono a tutta la campagna, fino alla liberazione di Tirana, in cui anche gli italiani entrarono da vincitori.

Anche in questa circostanza il soldato italiano, comandato da ufficiali privi di greche e di galloni argentati, quali il colonnello Fernando Raucci e i tenenti colonnelli Goffredo Zignani, Mario Barbi Cinti e Emilio Cirino, seppe essere più capace e valoroso dei suoi supremi comandanti, se essi portano il nome di Badoglio, Ambrosio, Roatta, Carboni e Rosi. Sta di fatto che quest’ultimo, dopo un tranquillo periodo di prigionia in un castello della Baviera, replicò alle accuse rivoltegli, adducendo la contraddittorietà degli ordini da Roma e la preponderanza di mezzi e preparazione politico-strategica dei tedeschi. Non sembra una difesa sufficiente, per giustificare un collasso di tali proporzioni, continuare a enfatizzare la superiorità della Wehrmacht o delle SS. Se Governo e Comando Supremo sono responsabili di non aver preparato militarmente l’armistizio, gli altri vertici militari lo sono, perché non hanno creato le condizioni, quando lo si poteva fare, per impedire la completa occupazione tedesca delle zone italiane.

Come conclude Coltrinari: «Sarebbe stato efficace in questi frangenti un addestramento ispirato alla capacità di iniziativa, alla autonoma decisione, alla disciplina delle intelligenze, alla chiarezza adamantina consequenziale tra compito e scopo, ed alla assunzione di responsabilità in base al proprio livello di comando». Invece i soldati furono lasciati senza guida, allo sbando, in balia degli eventi, delle emozioni e di una sofferta decisione, che per la stragrande maggioranza dei soldati ha significato una lunga e nerissima prigionia come schiavi del Terzo Reich

Blitzkrieg – La guerra lampo (1939 – 1940)

Blitzkrieg – La guerra lampo (1939 – 1940)

Blitzkrieg – La guerra lampo

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La Germania del Reich

All’inizio degli anni Trenta le democrazie non diedero molto peso agli sbraiti e alle idee visionarie di Adolf Hitler rivolti alla conqui­sta di tutto il pianeta. Al contrario le sue orazioni alquanto vigorose e carismatiche galvanizzarono il popolo tedesco che, dopo un quindicennio di governi deboli e umiliati, vide nella figura del Führer la rinascita della vecchia Germania, riportando in auge le pretese di superiorità della «razza ariana», con i suoi propositi di sottomettere le altre inferiori, e lo spirito patriottico legato in massima parte alle antiche tradizioni nordiche e ai miti wagneriani.

Il dittatore tedesco aveva ripreso questo modo di far politica e di propaganda dal suo «maestro» Benito Mussolini che, proclamatosi «DUCE», già da oltre dieci anni in Italia aveva organizzato il suo regime verso la dittatura con l’obiettivo di riportare Roma agli splendori dell’antico Impero. Hitler in quel periodo copiava pedissequamente in tutto l’atteggiamento di Mussolini. Tuttavia quello, che si mostrava come un timido allievo nel viaggio in Italia del giugno del 1934, mostrerà nell’arco di appena cinque anni i nefasti progressi, che questa imitazione aveva realizzato nel totalitarismo nazista.

Gengis Khan nel Medio Evo era riuscito a formare un vasto impero nell’Asia centrale saccheggiando, bruciando e depredando, assicurando per sé gran parte del mondo del XIII secolo; Hitler aveva l’intenzione di superare le conquiste mongole, per raggiungere la potenza sull’intero pianeta.

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La propaganda e il riarmo

Per raggiungere il dominio del territorio, oltre a un possente esercito era necessaria una forte propa­ganda sia all’interno che all’esterno del paese. Per questo dalla metà degli anni Trenta vennero inviate spie e grandi oratori in numerosi paesi europei. Travestiti da viaggiatori, studenti, commercianti si muovevano gli emissari nazisti con l’obiettivo di fondare alcuni movimenti impegnati a sollevare le folle, rendere simpatico il regime hitleriano e a creare scontri armati tra fazioni per poi accusare i nemici politici di portare violenza e diffondere idee false. In sintonia con questo clima, la propaganda all’interno appariva martellante. I ministri Göbbels e Ribbentrop agivano in maniera invitante per accattivarsi i favori del popolo tedesco, ma in realtà il quotidiano era ben diverso. Gli operai nelle industrie non avevano orari stabiliti; si lavorava tutto il giorno con ritmi frenetici, tutto in funzione di un riarmo massiccio e di un riavvio dell’industria pesante, dopo le forti limitazioni delle clausole della pace di Parigi e della rigida sorveglianza della Francia, che sul Reno tremava alla sola idea di un possibile risveglio tedesco. Le innovative autostrade, fiore all’occhiello della Germania nazista, seppur vuote mostravano il livello di sviluppo economico, che il paese raggiunse in pochi anni. Il lavoro delle fabbriche per la costruzione di possenti e moderne armi era affiancato da una continua campagna a favore delle forze armate (Wehrmacht) con particolare cura dell’aviazione, la Luftwaffe, e delle truppe corazzate dell’esercito (Heer).

Nel 1919 il trattato di Versailles aveva ridotto gli effettivi tedeschi in armi a soli 100.000 uomini, ma Hitler usò questa modesta cifra per conteggiare i soli ufficiali, elementi al massimo dell’addestramento, continuando con la secolare tradizione prussiana. Tutto l’armamento, ovviamente illegale secondo le norme dei trattati postbellici, era all’avanguardia e di prima qualità, compresi i nuovi corpi dei paracadutisti e dei carristi. L’unico elemento antiquato del regime risultava essere il passo dell’oca; un’antica tortura germanica, che impedendo all’uomo di pensare, lo obbligava a ubbidire ciecamente, rendendo l’uomo simile alle macchine che usava.

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Le annessioni prebelliche

Fino a questo momento la politica tedesca si era basata solo sulla propaganda e sul riarmo, ma dal 1935 iniziarono anche le prime annessioni territoriali. Il primo obiettivo fu la Renania che, insieme alla Saar, già in mano tedesca dopo un plebiscito che aveva espresso il 90 % dei voti, era la regione del Reich al confine con la Francia e per questo sotto la lente di Parigi, impaurita più che mai dalla nuova iniziativa di Berlino.

Tale zona venne smilitarizzata alla fine della Grande Guerra per evitare un nuovo possibile attacco germanico; la regione, secondo il trattato di Locarno (1925) non poteva contenere milizie né tanto meno mezzi corazzati, ma Hitler, rendendo l’azione come fatto interno al suo paese e banalizzando la situazione militare del Reich, non ricevette ammonimenti internazionali o prese di posizioni straniere. La Renania diventava così anche il teatro di numerose costruzioni fortificate. Infatti nei piani del Führer vi era il progetto di porre come antagonista della famigerata Linea Maginot, la sua Linea Siegfried, lunga 600 km, larga 30 km, ancora più potente e meglio armata di quella francese. Dopo l’annessione della regione occidentale, passata sotto silenzio, la Germania aveva come obiettivo quello di mostrare veramente di che pasta fosse fatto il suo rinnovato apparato militare. Per questo nel marzo del 1938 senza consultare i paesi firmatari dei Trattati di pace, con una benevola neutralità di Mussolini, invase l’Austria, mascherando l’annessione come una liberazione dei popoli di lingua tedesca ingiustamente separati dai fratelli maggiori del Reich. L’autonomia dello stato alpino era stata sancita sempre a Parigi nel 1919, ma Hitler riuscì a convincere le potenze vincitrici del conflitto mondiale che le sue intenzioni erano non solo pacifiche, ma anche legittime: creare uno stato omogeneo per cultura, tradizione e lingua, non avendo rivendicazioni territoriali e promettendo di mantenere stabili i confini e le decisioni del 1919.

II popolo austriaco acclamò il proprio compatriota, che risvegliava già nella gente gli onori e la gloria dell’Impero asburgico. Come al solito la realtà differenziava di gran lunga da ciò che appariva sui giornali e nei cinematografi, e già nei giorni seguenti l’annessione le SS rastrellarono le case e deportarono coloro che non condividevano l’entusiasmo della maggioranza. Il cancelliere della repubblica austriaca Kurt Alois von Schuschnigg venne deposto, arrestato e venne indetto un referendum popolare, falsato e gestito in tutti i sensi dalla Gestapo, per la concreta annessione dell’Austria alla “Grande” Germania. La conclusione dell’operazione fu l’Anschluss, che non provocò gravi critiche all’estero, anzi rese ancora più stretto il legame con l’Italia fascista, che nel 1938 era divenuta una valida sostenitrice diplomatica nell’opera politica tedesca.

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La questione cecoslovacca

Il desiderio di conquista del mondo obbligava la Germania all’inizio del 1938 a mirare per prima agli stati più vicini e più deboli. Dopo l’Austria si imponeva sulla carta geografica la Cecoslovacchia, formata da vasti territori appartenuti fino a venti anni prima alle antiche nazioni tedesche. La situazione non era comunque delle migliori. Lo stato slavo aveva un’ottima difesa a ovest, un valido esercito, una potente industria bellica e civile come la Skoda, un presidente incorruttibile Edvard Beneš e una forte alleanza con Francia e Gran Bretagna, che gli garantiva una valida copertura contro i progetti espansionistici di Hitler. Questi, per evitare accuse e recriminazioni, escogitò un piano diplomatico da abile giocatore d’azzardo. Egli affermava che nella regione ceca di confine, i Sudeti (molto fortifica e difficile da valicare), vivevano molti gruppi di abitanti di origine germanica e con il pretesto di voler unificare la grande nazione di lingua tedesca pretendeva la zona montuosa anche a costo di una guerra poiché egli, come salvatore della patria, aveva il dovere morale di liberare i suoi compatrioti. In realtà questi ultimi ormai vivevano serenamente sotto Praga, molti di loro tra l’altro anche perché erano nel frattempo fuggiaschi, espatriati dal giogo nazista, e non avevano nessuna intenzione di tornarvi come schiavi. Tuttavia le astute argomentazioni del Führer, intervallando suppliche e minacce, e le azioni violente dei nazisti sudeti, presentate come difesa contro il razzismo antitedesco dei cecoslovacchi, portarono le grandi potenze europee a muoversi e a intervenire affinché si preservasse l’incerta pace, convinti nella buona fede del dittatore tedesco.

Neville Chamberlain, primo ministro britannico, iniziò quindi ad avere numerosi incontri con Hitler nel suo rifugio alpino a Berchesgaden e a Bad Godesberg. Qui tra i due nacque un’intesa diplomatica e l’inglese promise un colloquio anche con i rappresentanti di Francia e Italia per risolvere pacificamente la situazione. Il dittatore, sempre grazie all’influenza di Mussolini, come primo ministro di una nazione vincitrice della Guerra mondiale, organizzò nell’autunno di quello stesso anno un congresso a Monaco, al quale parteciparono i quattro grandi: i due dittatori, il primo ministro britannico ed Edouard Daladier, premier francese. I rappresentanti firmarono l’accordo, nel quale si sanciva il passaggio della regione dei Sudeti al Reich in breve tempo, senza per altro coinvolgere nella decisione il governo cecoslovacco. In maniera ingenua Francia e Gran Bretagna si reputarono soddisfatte e non alzarono obiezioni, anche perché il Führer ribadì anche in questa circostanza di volere solo cittadini tedeschi, non cecoslovacchi. Assicurò che questa sarebbe stata la sua ultima pretesa territoriale, avendo sanato in pieno le ingiustizie della Conferenza della pace, che aveva reso i suoi compatrioti stranieri tra loro e soggetti a paesi diversi. Mussolini insieme al ministro degli Affari Esteri, nonché suo genero, Galeazzo Ciano tornò in Italia soddisfatto, ma vide di cattivo auspicio il largo entusiasmo degli Italiani verso la pacifica soluzione raggiunta. Cosciente dell’impreparazione del paese a una possibile nuova guerra, concretizzò ancora di più il forte allineamento tra Italia e Germania, che portò alla firma del Patto d’acciaio, che sancendo un’alleanza sia difensiva che offensiva, consacrava le due nazioni come sorelle, solidali e compagne di lotta sia in pace che in guerra.

Come è facilmente intuibile, Hitler fino ad allora aveva solo ripetuto il suo ritornello preferito, ma sei mesi dopo l’accordo siglato a Monaco, gettò la maschera e attaccò la Boemia e la Moravia. L’avanzata fu fulminea e il 15 marzo le truppe tedesche entrarono a Praga. L’annessione ora comprendeva territori mai appartenuti a stati tedeschi, annullando qualsiasi scusante di tipo culturale o etnico. Il presidente ceco Beneš venne obbligato a dimettersi e a esiliare; al suo posto i tedeschi crearono un governo fantoccio filonazista, primo di una lunga serie. L’occupazione garantiva ai vincitori un numero ragguardevole di uomini validi da utilizzare come schiavi, ampie risorse economiche e un trampolino di lancio verso Est, avendo annullato un altro impedimento strategico alla propria avanzata, che doveva con la conquista dello spazio vitale (Lebensraum), portare alla costruzione della «Grande Germania».

Il nuovo obbiettivo fu la «liberazione» di Memel, cittadina lituana al confine con la Prussia orien­tale. In quel momento la politica di Berlino risultava chiara a tutti, ma ormai era troppo tardi per porvi un valido rimedio. I piani del dittatore erano stati scritti molto esplicitamente nel Mein Kampf, ma l’Europa li aveva sempre considerati pura fantasia, impraticabile e troppo fanatici per diventare realtà.

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Il Patto di «non aggressione»

Raggiunti i successi preliminari, Hitler continuava imperterrito nella sua politica espansionistica. Conquistata la Cecoslovacchia, la prossima vittima era per logica la Polonia. Essa era fondamentale per il dittatore tedesco in quanto nel 1919 aveva beneficiato di secolari regioni dell’Impero germanico, nelle quali c’era anche Danzica, città libera, il cui «corridoio» Berlino pretendeva di annettere, così da riportare la continuità territoriale tra madrepatria e Prussia orientale. Le regioni polacche erano anche necessarie per un futuro e non ben definito attacco alla Russia, che per il momento si trovava in un periodo di stallo politico. Stalin nella sua politica totalitaria aveva ridotto e infiacchito la potenza dell’esercito e aveva, tra l’altro, silurato e giustiziato anche il maresciallo Michail Tuchačevskij, il più abile coman­dante militare che l’Unione Sovietica aveva.

La situazione delle due grandi potenze era quindi non determinata e in parte precaria. Per questo la soluzione fu un’intesa, firmata il 23 agosto 1939 tra i due ministri degli Affari Esteri, Joachim Von Ribbentrop e Vjačeslav Molotov. Tale accordo sanciva l’impegno dei due paesi di non entrare in conflitto tra di loro, mentre nel protocollo segreto allegato si fissava la spartizione della Polonia tra le due nazioni e l’occupazione sovietica degli stati baltici.

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Polonia: armadio di Hitler

Al patto appena concluso oltre Manica si respirava aria d’insofferenza. Chamberlain, ormai cosciente del vero obiettivo tedesco, regolarizzò ufficialmente l’alleanza con Varsavia e minacciò una guerra a scala europea se la Germania avesse attaccato la Polonia. Hitler rimase impassibile, affermando di volere come al solito liberare i suoi compatrioti, sottomessi da un inaudito dominio polacco e di unificare il Reich con la Prussia orientale attraverso il «corridoio» sottratto dalla Polonia alla fine della Grande Guerra. Le trattative diplomatiche fallirono; Francia e Gran Bretagna si prepararono quindi al conflitto, avvertendo che la Germania si sarebbe trovata a combattere su due fronti, fattore sempre temuto dai tedeschi.

Nel frattempo Mussolini, consapevole dei non rosei rapporti del suo capo di Stato Maggiore Pietro Badoglio sulla situazione delle forze armate, informò con suo grande dispiacere di non poter entrare in guerra subito accanto all’alleato germanico. Malgrado questa temporanea defezione, la macchina di Hitler era ormai avviata e a seguito di alcuni rinvii causati dalla diplomazia, dopo aver prima aspettato che Varsavia predisponesse la mobilitazione generale, ordinò l’attacco per il 1° settembre. Alle ore 10:00 il cancelliere proclamò dal Reichstag che le truppe naziste avevano varcato i confini orientali e che procedevano spediti verso Est. Sfortunatamente per l’Europa intera queste affermazioni non erano le solite menzogne; la realtà era a favore dei tedeschi, che possedevano circa 5.000 carri armati efficienti e 6.000 aerei di ultima generazione, gli Stukas, contro i 600 carri leggeri, 1.000 aerei lenti e antiquati e un’esile cavalleria polacca.

La guerra lampo tedesca era iniziata e la sua attuazione fu micidiale: superata la Vistola, con mezzi navali veloci, le truppe raggiunsero la capitale, che oltre a una suicida difesa poteva solo farsi forza con la Polonaise di Chopin contro i soldati «wagneriani». La resa della città venne proclamata il 28 settembre, quella della nazione il 1° ottobre; dopo la Wehrmacht, sopraggiunsero le SS, che non esitarono a saccheggiare e a giustiziare o deportare civili e militari.

Polscy_pocztowcy_po_kapitulacji_Gdańsk_1.09.1939

L’attacco alla Scandinavia

Gli eserciti antinazisti però non rimasero a guardare. Oltre la Manica in queste circostanze non solo le forze armate, ma tutto il popolo britannico si stava schierando per far «rinascere la gloria del genere umano». Insieme alla Francia e alla Gran Bretagna si associavano come nemiche del nazismo anche il Canada, il Sud Africa, l’Australia e tutte le altre nazioni del Commonwealth. I mari rimanevano ancora controllati dalla Royal Navy, che stava potenziando ancor di più le sue basi nel mar del Nord, a Gibilterra e a Malta.

Hitler era consapevole che il Regno Unito rimaneva il nemico numero uno della Germania; tuttavia tra le due nazioni non vi era solo la Francia, ma anche alcuni piccoli stati per il momento pacifici e non pericolosi, ma che in caso di alleanza con i britannici avrebbero impegnato non poco l’avanzata tedesca. Il dittatore adoperò quindi la sua arma preferita, la propaganda, accusando i suoi nemici di volere la guerra e promettendo agli stati confinanti privilegi e miglioramenti. La situazione non gli era favorevole, allora scelse di ricorrere alle maniere forti. La nazione che stava più a cuore a Hitler era la Norvegia, geograficamente indispensabile per l’attacco contro le isole britanniche. Essa risultava più vicina alla Scozia della Germania, quindi basi aeree norvegesi controllate dai tedeschi avrebbero garantito attacchi vittoriosi contro le postazioni militari britanniche. Inoltre i fiordi e le insenature apparivano come ottimi porti per i sommergibili tedeschi. Tuttavia per raggiungere la Norvegia, bisognava passare per la Danimarca, ma i problemi non sembravano proprio essere questi. L’attacco iniziò il 9 aprile e praticamente in 24 ore la nazione era caduta. Per superare il mare scandinavo, le milizie tedesche inosservate trovarono riparo in navi mercantili, che giunte ai porti norvegesi poterono scaricare la letale sorpresa. Qui i conquistatori trovarono accanite difese, perché si sarebbero scontrati con un popolo ben motivato e i boschi innevati garantivano molte azioni di sorpresa contro gli invasori. La situazione precipitò per i difensori quando vi fu l’impiego dell’aviazione del Reich e dei suoi addestrati paracadutisti. I norvegesi arretrarono senza sosta verso Nord e l’avanzata fu sempre più veloce anche perché alcuni traditori abbandonarono le postazioni di artiglieria costiera, che consentirono continui sbarchi nemici. Il re Haakon venne obbligato ad abbandonare Stoccolma e raggiungere Londra, sede del suo esilio provvisorio. Intanto le marine alleate cercavano di bloccare i rifornimenti che legavano gli invasori alla madrepatria, ma la distanza favoriva i tedeschi, ai quali era più facile anche respingere i contingenti in appoggio alla Norvegia che necessitavano dell’utilizzo delle portaerei molto scomode e vulnerabili. La rotta era irrimediabile: nei palazzi governativi delle nazioni scandinave conquistate oltre a sventolare la svastica si insediarono i soliti governi fantoccio filotedeschi.

Nel frattempo Mussolini non distolse mai la propria attenzione verso le operazioni vincenti dell’alleato, non senza una malcelata invidia. Nell’incontro presso il passo del Brennero del 16 aprile con Hitler si impegnò a entrare presto in guerra. Il Duce vedeva la vittoria in tasca all’Asse e non poteva certo permettersi di rimanerne fuori, anche a costo di utilizzare le forze armate italiane equipaggiate con poche e vecchie armi. Una Germania troppo forte e potente avrebbe messo non solo in ombra l’Italia, ma l’avrebbe presto o tardi ridotta a periferia del potere e serva dei suoi obiettivi.

16May-21May_Battle_of_Belgium

L’attacco ad Ovest

Con le azioni norvegesi Hitler si era garantito «l’artiglio settentrionale» per la conquista delle isole britanniche, ma adesso era necessario anche consolidare quello meridionale, formato dalla Francia. Essa, però, era ben difesa dalla fortificata linea Maginot. Un attacco in prossimità del Reno avrebbe riesumato le battaglie di posizione della Grande Guerra, quindi i generali tedeschi più capaci e con truppe superiori a quelle francesi si orientano a ripetere nelle sue linee generali l’attacco del 1914, con il quale però si sarebbe violata ancora una volta la neutralità del Belgio e in questa occasione anche dell’Olanda. Dal canto loro i francesi erano stranamente ottimisti. Ignorando le innovative tattiche di rapidità e celerità delle truppe corazzate, avevano fiducia nella Maginot (ormai divenuta però antiquata nella logica della Blitzkrieg tedesca) e non si preoccuparono eccessivamente di un eventuale ormai classico attacco da Nord attraverso le Fiandre. I piani tedeschi si basavano invece su attacchi veloci e micidiali. Il 10 maggio fitti stormi di aerei calarono paracadutisti e alianti nei cieli nell’Olanda e del Belgio. Le truppe aviotrasportate risultarono fondamentali per preparare il terreno alle colonne di terra; i ponti vennero salvati dalla distruzione, i presidi più arroccati vennero annientati e si provò anche un tentativo per rapire la famiglia reale. L’Aja cadde facilmente, Rotterdam resisteva, ma forti bombardamenti provocarono la resa della città e dell’intera nazione il 16 maggio.

Nel frattempo in Belgio iniziò la mobilitazione generale e il comando supremo francese ordinò una possente avanzata al Nord. Tuttavia le truppe dello scaltro Gerd von Rundstedt avanzarono a Sud attraverso il Lussemburgo sulle Ardenne. Tale zona collinosa e boscosa era ritenuta dai francesi inadeguata per un attacco, per questo non venne vigilata. Ecco quindi che l’attacco imprevisto mosse ancora più veloce, anche perché le poche vie di collegamento impedivano un contrattacco francese. I tedeschi raggiunsero la Mosa e l’aviazione francese non riuscì a impedire la costruzione e l’utilizzo di ponti. La tattica tedesca della guerra lampo era micidiale anche in Francia; l’attacco a punta di lancia garantiva avanzate e rifornimenti veloci. Solo in poche occasioni le sparute truppe motorizzate del generale Charles De Gaulle, ancora quasi del tutto anonimo, riuscirono a frenare gli invasori, ma l’esiguità dei mezzi si faceva sentire. Il mare appariva vicino ai tedeschi; in pochi giorni sia i francesi sia il corpo di spedizione britannico venero accerchiati e messi con le spalle al mare presso Dunkerque.

Tuttavia dalla catastrofe nacque quello che i britannici ribattezzeranno «il miracolo»: Hitler poteva eliminare il manipolo rimasto con un attacco decisivo, ma concesse a Göring e alla sua Luftwaffe il privilegio di spazzare via i nemici. La sorte sarà diversa: il cattivo tempo e gli Spitfìres britannici permisero l’imbarco dei superstiti. Benché il panico regnasse tra le truppe ormai sbandate e in cerca di rientrare in patria, le operazioni avvennero in modo ordinato, grazie anche alla capacità logistica del generale Bernard Montgomery, anche lui allora poco conosciuto. La traversata della Manica venne portata avanti da ogni tipo di imbarcazione: navi militari, mercantili, barche da pesca, da diporto e da qualsiasi altra «tinozza» che reg­gesse il mare. In Inghilterra arrivarono oltre 300.000 uomini di cui 200.000 britannici, 130.000 francesi e poche migliaia di belgi. Riorganizzato l’esercito, il nuovo premier Winston Churchill non si diede per vinto, anzi risollevò la nazione, che si preparava a continuare la guerra, difendendo a questo punto la diretta esistenza e la libertà in casa propria.

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La capitolazione della Francia

Intanto in Francia continuavano le ostilità a favore dei tedeschi, che catturarono anche il generale Henri Giraud. Le truppe francesi erano insufficienti rispetto all’ampiezza del fronte; Parigi si preparava all’ultima eroica difesa. Il 14 giugno le truppe degli invasori entrarono nella capitale, oltraggiata e sbeffeggiata. Le milizie tedesche sfilarono vittoriose per i Campi Elisi; i parigini non potevano che piangere e sperare nel futuro.

Ormai in ginocchio la Francia venne attaccata anche a Sud: 21 giugno l’Italia non poteva perdere l’occasione di sedersi come vincitrice al tavolo della pace. Mussolini ordinò l’attacco da Ventimiglia e in Savoia. In tre giorni di combattimenti l’esercito italiano perse 300 uomini, morti più per il freddo dei ghiacciai che per i colpi dei francesi. I risultati erano ormai prevedibili, si avanzava dove non c’era nessuno, ci si fermava anche davanti a un manipolo di soldati. Mussolini si consolò con il raggiungimento e la conquista di Mentone (appena pochi chilometri oltre il confine), alla quale diede un’importanza straordinaria soprattutto nella propaganda e nei cinegiornali. L’Italia non faceva comunque che il solletico alla Francia ormai in procinto di capitolare; l’armistizio venne concesso il 25 giugno. Questo fu firmato nello stesso vagone dove era stato firmata la resa dei tedeschi nel 1918, ma lo smacco non finì qui: dopo la cerimonia resa ancora più umiliante per i plenipotenziari francesi, il vagone, il museo e la statua di Foch vennero barbaramente distrutti dai nazisti.

Con la resa francese Hitler si annetteva i 3/4 della nazione, lasciando il resto al governo di Vichy, un ennesimo fantoccio alla corte di Berlino, presieduto dal vecchio generale Philippe Pétain, già veterano della Grande Guerra, ma per questo ultimo episodio giudicato a posteriori come traditore dalla Francia.

La Germania, oltre al controllo del suolo francese, si appropriò anche della popolazione, considerata inferiore, quindi schiava della super-razza; molti francesi, per evitare il peggio, furono obbligati a emigrare per lavorare nelle fabbriche tedesche. L’onore della Francia però non era del tutto morto. Le bandiere e le tradizioni dell’esercito seguirono il generale De Gaulle, animato da un elevato sentimento patriottico e di riscatto per l’onta subita dalla resa. Egli non ammise il tradimento e si impegnò a combattere nei territori francesi d’Oltremare e ad appoggiare le formazioni partigiane da Londra. La «Francia Libera» venne costituendosi dalle truppe scampate a Dunkerque, dalle milizie del centro Africa e da alcune navi da guerra; il resto delle forze armate rimase fedele a Pétain, impegnato soprattutto nell’occupazione delle regioni francesi del Nord Africa e della Siria.

De-Gaulle

Lo sbarco in Normandia

Lo sbarco in Normandia

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La roccaforte Europa

Conclusasi la guerra lampo con la sconfitta della Battaglia d’Inghilterra, Hitler si era trovato a difendere a sua volta l’Europa continentale da eventuali attacchi. Per questo dal 1941 i tedeschi avevano iniziato un’imponente opera difensiva, il «Vallo Atlantico», che avrebbe dovuto impedire qualsiasi attacco e sbarco nelle zone assoggettate dal Reich. I schiavi e i prigionieri di guerra vennero impiegati per la realizzazione di questa “fortezza” che si sviluppava dalla Bretagna e arrivava fino alle coste dell’Olanda. L’opera difensiva venne continua­mente rinforzata e meglio protetta. In massima parte era composta da muri di cemento armato con po­stazioni di cannoni a lunga gittata. Sulle spiagge e nel mare immediatamente adiacente erano dislocate milioni di mine, cavalli di Frisia e qualsiasi altro impedimento che impedisse eventuali sbarchi anfibi e scarico di uomini. Il 19 agosto 1942 avvenne la prima operazione per ottenere una testa di ponte in territorio francese nella città settentrionale di Dieppe. Essa venne compiuta da 5.000 canadesi e da 1.000 fra commando britannici, rangers statunitensi e unità della Francia Libera, con l’appoggio di 56 squadriglie della Raf. Le truppe alleate, sbarcate nella notte, furono inchiodate nei pressi della spiaggia di ciottoli e riuscirono solo a impadronirsi di una batteria costiera. Dopo violenti combattimenti molto favorevoli ai tedeschi, i pochi superstiti alleati furono obbligati a reimbarcarsi.

La missione non risultò del tutto negativa perché permise agli Alleati di provare la difesa tedesca, che da quel momento richiese più truppe da distogliere da altri fronti. All’inizio del 1944 venne nominato comandante in capo del Gruppo d’Armata B, nonché responsabile del Vallo, Erwin Rommel, di ritorno dall’Africa e da una permanenza in ospedale. Egli, convinto di un attacco alleato proveniente dalla Manica entro la fine dell’anno, potenziò ancora di più le postazioni e i bunker della Francia settentrionale. Portò il numero delle mine da quattro a sei milioni e addestrò senza sosta le sue truppe in prossimità delle spiagge. Egli, però, anche se restava il generale preferito da Hitler doveva vedersela con il feldmaresciallo Gerd von Rundstedt, suo diretto superiore e comandante supremo dell’Occidente, che invece avrebbe voluto il grosso delle truppe nelle retrovie, per un eventuale impiego successivo, in previsione di un contrattacco diretto esclusivamente nel punto interessato allo sbarco.

 

Meeting_of_the_Supreme_Command,_Allied_Expeditionary_Force,_London,_1_February_1944_TR1631

La preparazione di Overlord

Intanto oltre la Manica, dall’inizio del 1944 già si concentrava una gran massa di soldati di tutte le nazionalità in conflitto contro l’Asse. Le forze armate degli Stati Uniti contavano più di due milioni di uomini. Le truppe iniziavano addestramenti molto impegnativi, che avrebbero garantito esperienza e rapidità sui campi di battaglia. Oltre che per gli uomini, la Gran Bretagna era anche il luogo di concentrazione di innumerevoli mezzi bellici terrestri, aerei e marittimi. Tutto doveva combaciare alla perfezione, perché il piano era già pronto dal novembre dell’anno precedente, quando i capi di governo, Churchill, Stalin e Roosevelt, si incontrarono a Teheran per organizzare il famoso «Secondo fronte», che avrebbe dovuto logorare e distogliere i tedeschi dal fronte orientale. Il primo ministro britannico era riuscito a convincere il premier sovietico a rimandare l’attacco all’Europa per la primavera del 1944, anche perché, secondo lui le controversie africane e quelle dell’Italia meridionale avrebbero impegnato notevolmente le truppe del Reich, ormai agli sgoccioli su più fronti. Stalin accettò la proposta del britannico, che incaricò Eisenhower, in collaborazione con Montgomery, di organizzare le operazioni di sbarco. A differenza di qualsiasi logica ipotesi strategica, fu scelta come zona la Normandia. La vicinanza di Dover alla Francia avrebbe fatto prevedere gli sbarchi nella zona di Calais. Per accrescere questa convinzione negli animi dei tedeschi, il comando alleato ordinò forti bombardamenti e azioni si sabotaggio in quella zona. Inoltre il generale Patton, a suo malincuore, venne promosso a comandante di carri armati gonfiabili o di legno, dislocati come diversivo nella zona inglese davanti Calais. L’unico inconveniente per l’operazione denominata «Overlord», fu il ritrovamento dei piani da parte dei tedeschi, che tuttavia vennero creduti falsi dal servizio informazioni nazista. Anche un agente albanese soprannominato “Cicero”, infiltrato nell’ambasciata britannica di Ankara, riportò le stesse informazioni, ma Berlino rimase scettica e non diede seguito a quelle preziose rivelazioni.

 

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Le fasi iniziali

Al quartier generale a King Charles Street era tutto pronto: Eisenhower ricopriva il ruolo di comandante supremo, sotto di lui c’era l’ammiraglio Ramsey e il maresciallo Leigh-Mallory, rispettivamente comandanti delle forze marittime e aeree. Il giorno fissato era il 4 giugno. La sera tra il 3 e il 4, 2.500 navi e 2.700 altri mezzi marittimi imbarcarono uomini e partirono alla volta delle spiagge normanne, ma nella Manica si presentò la più forte tempesta degli ultimi venti anni. Per questo motivo all’alba tutte le imbarcazioni vennero richiamate verso i porti inglesi. Gli uomini restarono ammassati ai moli o ancora sui mezzi marittimi, perché i loro posti nelle caserme erano già stati assegnati agli uomini della seconda ondata di invasione. La situazione si presentava tragica perché oltre all’attesa che si rivelava lunga e insopportabile, l’ammassamento di così tante truppe in zone così ristrette avrebbe potuto rivelare ai ricognitori nemici le vere intenzioni degli Al­leati. Eisenhower e Montgomery furono perplessi intorno alla decisione: accettare il tempo solo passabile ma con le caratteristiche di marea e luna necessarie del 6 oppure aspettare ancora diverse settimane. Infatti era indispensabile la bassa marea per la localizzazione delle mine marittime e la luna piena per permettere gli atterraggi notturni dei paracadutisti. Eisenhower, visto anche un leggero miglioramento del 5, si prese la re­sponsabilità e ordinò l’attacco per il giorno successivo: 6 giugno il D-Day. I suoi avversari erano assolutamente convinti che quel tempo non favorisse l’attacco; infatti sia in Africa sia in Sicilia gli americani erano sbarcati sempre con il bel tempo. Per questo il grosso dei generali si trovava ad una conferenza a Rennes, in Bretagna, e Rommel in Germania, per il compleanno della moglie e per chiedere al Führer le famose divisioni dislocate nelle retrovie, che questi negò assolutamente. La sera del 5 le navi partirono di nuovo e con loro si alzarono anche i primi aerei e alianti, che dovevano portare le prime truppe in territorio francese, i paracadutisti esploratori. Questi, aiutati anche dai partigiani avvertiti da Radio Londra, iniziarono azioni di sabotaggio per facilitare gli sbarchi e far saltare le vie di comunicazione e telefoniche. Le zone di atterraggio erano due, posizionate ai due lati degli sbarchi, ma ci fu molta imprecisione nella localizzazione delle aree preposte a causa della nebbia. La prima, intorno alla cittadina di Ste-Mère Eglise era l’obbiettivo delle due divisioni di fanteria aviotrasportata statunitense: la 101^, comandata dal generale Taylor, che l’8 settembre sarebbe dovuta atterrare a Roma, e l’82 . La seconda invece era nei pressi di Caen. Qui i 5.000 uomini della 1^ e della 6^ divisone britannica avevano anche il compito di mantenere in piedi il “Pegasus Bridge”, nodo vitale per l’avanzata. Le operazioni di atterraggio, avvenute poco dopo la mezzanotte, risultarono molto difficoltose, l’antiaerea e le mitragliatrici falciarono ancora in cielo i paracadutisti; quelli che raggiunsero terra risultarono impantanati in vaste zone allagate di proposito da Rommel. Per deviare le difese del Reich, vennero però paracadutati anche pupazzi di gomma (denominati Rupert), che esplodevano al contatto con il suolo.

 

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Orrore sulle spiagge

Intanto, mentre i combattimenti a terra già avevano avuto inizio, i mezzi navali avanzavano dal mare, protetti dalla nebbia che ne impediva la vista ai tedeschi. Solo alle ore 5:20, quando la foschia si era  leg­germente diradata, il maggiore Werner Pluskat dell’artiglieria costiera si accorse con stupore della presenza delle flotta, che avanzava. Venne dato, quindi, l’allarme nettamente in ritardo. La sorpresa era tanta perché i radar non avevano funzionato. Intanto dalle navi iniziava il primo cannoneggiamento per la riduzione delle difese del Vallo. Anche 9.000 aerei alleati furono impegnati in questa impresa, ma la poca visibilità provocò bombardamenti imprecisi. Come risposta, a dare battaglia nei cieli non vi erano che meno di 200 aerei della Luftwaffe, perlopiù con poco carburante. Il grosso della flotta aerea era stata infatti spostata da Göring presso Calais, luogo ancora ritenuto più probabile per uno sbarco.

Le truppe alleate passarono quindi dalle navi ai trasporti, che con non poche difficoltà raggiunsero la riva. Il mare era agitato, i tiri dell’artiglieria vicini, le mine disposte dappertutto, sia nei fondali marini sia sulla battigia, sia sulla spiaggia vera e propria.

La costa normanna, lunga quasi 40 km era stata divisa dal comando alleato in cinque spiagge da Ovest a Est: Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword. Le prime due erano di competenza degli Stati Uniti, le altre erano affidate ai britannici, ai canadesi e ai reparti della Francia Libera. Alle 6:30, ora H, iniziò con consistenza l’arrivo delle truppe a Utah e a Omaha. Quest’ultima, denominata poi la «spiaggia assassina», risultò luogo di una carneficina sia per gli Alleati che per i tedeschi, su cui stavano piovendo oltre 13.000 bombe.

Tra gli invasori la situazione non era certo più confortante. Gli uomini non avevano il tempo di mettere piede sulla battigia, che già cadevano morti, colpiti da raffiche a ripetizione e continue esplosioni. Intanto i genieri cercavano con insistenza di disinnescare le mine e di creare varchi lungo la riva. La prima ondata fu di 3.000 soldati, ben pochi si salvarono. Alle ore 7:00 arrivò la seconda ondata, che però restò sempre bloccata dagli ostacoli semisommersi e dalle mine. Per risolvere la situazione alcuni reparti di ranger tentarono di impossessarsi del Point du Hoc, punta che dominava le spiagge statunitensi. La salita appariva ardua, ma con l’impiego di rampini e scale di corda il grosso raggiunge la vetta, dove si impossessò delle postazioni, guadagnate al nemico con bombe a mano e colpi di baionetta.

Alle 7:30 iniziò il flusso anche sulle spiagge britanniche, ma tra la spiaggia e le case in riva al mare, dove si nascondevano i cecchini, iniziò uno scontro micidiale. L’avanzata appariva veloce. Intanto von Rundstedt non riesciva a dominare la situazione. Per questo chiamò a Berchtesgaden il generale Alfred Jodl, affinché intervenisse presso il Führer per far ordinare alle truppe corazzate della Panzer SS di raggiungere il mare. Dalla Germania però non si ebbero riscontri. Nella logica di Berlino la Normandia non poteva essere che un ottimo diversivo, mai l’obiettivo principale per un accademico come Eisenhower.

Intanto Rommel, avvertito dell’accaduto alle ore 10:00, partì subito alla volta della Normandia, rammaricato quanto consapevole del suo errore. Alle ore 14:00 Hitler venne informato della vera gravità della situazione. La sua collera si indirizzò verso i suoi sottoposti, che comunque anche con l’intervento della 7^ e della 15^ divisione corazzata ormai non potevano più certo ributtare a mare gli Alleati.

Mentre all’interno i combattimenti si presentavano acerrimi, al centro della costa normanna, già dal primo giorno, venne allestito un porto artificiale. Vennero impiegate vecchie navi e materiale prefabbricato per l’uso in Gran Bretagna. In poche ore ad Arromanches venne inaugurato il porto “Winston”, da subito nodo cruciale per i rifornimenti di materiale e l’approdo di nuove milizie. In meno di un mese la battaglia di Normandia si concluse e le truppe alleate avanzarono con ve­locità. Patton di nuovo messo a capo di una vera Armata, dimostrò ancora una volta la tua tecnica, forse brutale ma di sicuro efficace: liberò Rennes, Nantes, Orléans, ormai diretto a gran velocità verso la Germania.

 

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«Feriscono il mio cuore con monotono languore»

In Germania il morale precipita vertiginosamente, il ministro Göbbels cercava in tutti i modi di sollevare la situazione. Oramai molti generali tedeschi avevano l’intenzione di eliminare Hitler, di formare una repubblica con a capo Rommel e di firmare la pace con gli Alleati.

Il 20 luglio alle ore 12:42 presso la Wolfsschanze (la luna del lupo), il quartier generale del Führer a Rastenburg nella Prussia Orientale, vi fu una terribile deflagrazione. Il dittatore rimase incolume, in quanto la riunione dove si stava svolgendo l’attentato si svolse in una costruzione di legno e non dove era previsto in un bunker, che avrebbe seppellito tutti gli occupanti. Dopo approfondite inchieste, l’accusa ricadde sul giovane colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, mutilato di guerra, appoggiato, direttamente e non, da alti esponenti della Wermacht, per l’operazione denominata «Walkiria». Da Roma partì subito Mussolini per compli­mentarsi con l’alleato, che gridava intanto vendetta. Essa sarebbe stata spietata. In pochi mesi quasi tutti i responsabili messi con le spalle al muro e fatti confessare. Furono scoperti come membri del complotto anche l’ammiraglio Wilhelm Canaris e lo stesso Rommel. A quest’ultimo venne concessa una scelta: una pillola di cianuro e funerali di Stato o un processo lungo e disonorevole per lui e per la nazione, con relativa ritorsione sulla sua famiglia. La scelta del feldmaresciallo ricadde per la prima ipotesi. Morirà il 14 ottobre 1944.

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Paris brûle-t-il?

In Francia l’avanzata continuava senza sosta, le truppe di Patton il 16 agosto annientavano gli ultimi ostacoli nell’Ile de France aprendo la via di Parigi. La capitale, però era ancora fortemente difesa, i partigiani insorsero il 19 agosto e per 5 giorni combatterono nelle strade contro i cecchini nazisti, che sparavano sulla folla. Da Berlino partì l’ordine di bruciare e distruggere le tradizioni storiche della città, prima dell’imminente ripiegamento, ma il generale Dietrich Von Choltitz rinunciò a questa infamante impresa e mantenne intatti tutti gli edifici e i ponti sulla Senna. Le Armate di Patton e di Bradley cavallerescamente si fermarono nei sobborghi Sud della città e concessero l’onore di liberare la capitale, al manipolo della Francia Libera, comandato dal generale Léclerc.

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