Internamento di Guerra. Germania 1943: il IV fronte della Guerra di Liberazione

Internamento di Guerra. Germania 1943: il IV fronte della Guerra di Liberazione

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Nel contesto della Campagna d’Italia, avvenuta tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945 la partecipazione italiana si è dimostrata un elemento apprezzabile per una più rapida vittoria dello schieramento alleato. Eppure tale sforzo bellico non fu affatto scontato, né tantomeno inevitabilmente logico, se si pensa al clima politico-istituzionale generatosi dalla caduta del fascismo prima e dal susseguirsi poi degli eventi drammatici del settembre 1943, seguenti la dichiarazione di armistizio e l’abbandono dell’intero Paese al suo destino da parte del Re, del Governo e dei vertici militari.
Questa chiave interpretativa, che vuole porre l’accento sull’importante iniziativa “dal basso” della rinascita nazionale e patriottica, nella sostanza autonoma rispetto all’«arrangiarsi» badogliano, non può escludere un’analisi approfondita sull’esperienza dei cosiddetti “Internati Militari Italiani” (Italienische Militär-Internierten). Questi, infatti, al fianco degli altri soldati combattenti e dei partigiani in Italia e all’estero, hanno contribuito – secondo le loro possibilità – alla Guerra di Liberazione, seppur dietro un reticolato e non potendo affrontare il nemico con le armi in pugno.

La triste storia degli IMI inizia anch’essa la sera dell’8 settembre, dopo l’ambiguo comunicato radio del maresciallo Pietro Badoglio. Di fronte all’incertezza degli eventi e alla rottura della catena di comando, l’oltre 1 milione di militari italiani allo sbando si trovò nella condizione di arrendersi e cadere in mano dei tedeschi. La situazione era drammatica, se si considera che per molti soldati la lontananza dalla Patria e l’esperienza di tre anni di guerra, subordinata e destinata alla sconfitta, si andavano ora a sommare con un destino ancora più triste, volto nella migliore delle ipotesi verso un’incerta prigionia.

Non ci si poteva certo aspettare clemenza dalla Germania per il tradimento subito, la cui reazione a questo punto sembrava poter essere anche peggiore di quella inferta dai teutonici all’esercito di Luigi Cadorna nella primavera della 1916.

Al momento dell’armistizio l’Italia, in una sorta di limbo diplomatico-militare, non era ufficialmente in guerra contro l’ex alleata. Quest’ultima tuttavia non poteva, né intendeva consentire la perdita dei vantaggi strategici ed economici derivanti dal controllo della Penisola, del meridione francese, delle isole del Mediterraneo e delle regioni balcaniche, in precedenza sotto occupazione italiana. La politica dell’Asse nel 1943 era incentrata sulla resistenza del fronte sud, ventre molle dell’Europa, quindi di primaria importanza, quanto meno per allungare nel tempo le possibilità belliche del Terzo Reich.

Secondo i calcoli elaborati da Gerard Schreiber, esaminando le carte tedesche, i militari italiani catturati, rastrellati e deportati dai nazisti sui vari fronti, perché giudicati disertori oppure franchi tiratori, furono circa 810.000. 1 A parte le ragioni prettamente morali, di vendetta, le autorità germaniche procedettero a questo piano di imprigionamento su vasta scala per ragioni economico-industriali. Quattro anni di guerra totale e la mobilitazione generale dei maschi adulti obbligavano Berlino a ricercare braccia da poter utilizzare come schiavi nell’apparato produttivo nazionale.

Il desiderio di rivalsa sul tradimento dell’Italia si espletava anche nella così poca considerazione o addirittura nel completo disprezzo della vita umana dei cosiddetti “badogliani”. Essi divenivano merce di scambio, materie prime informi da usare, logorare e gettare in fosse comuni in caso di prematura morte. Catturati in prima battuta dai reparti della Wehrmacht, passarono poi alle dipendenze dell’amministrazione delle SS, dedicata alla gestione del sistema di avvio al lavoro coatto e alla produzione bellica.

Gli italiani si trovarono quindi a partire dal settembre 1943 catapultati nel mare magno del sistema di prigionia e sfruttamento, sorto per impiegare i parassiti della società auspicata dai nazisti: oppositori e avversari politici, nemici dello Stato, indegni per razza, inclinazioni sessuali, costumi sociali e culti religiosi.

La conseguenza di questa linea politica fu la repentina variazione di status per i prigionieri italiani, che a partire dal 20 settembre divennero «internati», formula piuttosto ambigua, finalizzata ad escluderli dalle garanzie offerte dalla Convenzione di Ginevra del 1929. La sottile differenza fu adoperata quindi per poterli schiavizzare senza controlli, impedendo persino alle autorità della Croce Rossa Internazionale di intervenire in loro soccorso. Per la mancanza di garanzie era loro negato anche il diritto di fuga. In caso di cattura ciò comportava l’immediata fucilazione.

In questa logica discriminatoria la dichiarazione di guerra del Governo del Sud e la liberazione di Mussolini furono fatti indifferenti e accessori sul piano giuridico per Hitler, che a questo punto poteva giocare da un punto di forza arbitraria contro le velleitarie basi di diritto internazionale in cui sarebbero potuti ricadere gli italiani catturati.

Nel frattempo la neonata Repubblica Sociale Italiana, anche nella speranza di poter attingere tra gli internati militari per gli arruolamenti nelle Forze armate fedeli al redivivo Duce, li considerò comunque suoi sudditi, ma nessun intervento diretto fu sufficiente per le autorità fasciste di farli riportare sotto la propria giurisdizione.

I tedeschi in questo senso, se da un lato tentarono di far collaborare gli internati attraverso la propaganda e con allettanti promesse di miglioramento umanitario ed economico, avevano come scopo principale quello di mantenere il maggior numero di uomini validi nei lavori di bassa manovalanza sul territorio della Germania oppure nelle principali basi operative paramilitari dislocate nei Balcani, in Polonia e nelle province sovietiche occupate.

L’opzione di rientrare da regolari in reparti italiani era semmai opportuna e di facciata per i soli ufficiali, mai per la maggior parte degli altri internati, dei quali una “conversione” era preziosa casomai per farli lavorare con motivazioni di ordine ideologico o pratico.

Il problema infatti coinvolgeva in modo diverso i soldati rispetto agli ufficiali. Questi ultimi (circa 28.000), sin dalla loro cattura furono oggetto di reiterate offerte di continuare a combattere arruolandosi nelle SS, caratterizzate dalla forte ideologizzazione e dalla provenienza plurinazionale dei suoi membri, o nelle Forze armate di Salò. Il premio per l’opposizione al tradimento badogliano sarebbe stata la promessa di rimpatrio o un pronto adeguamento socio-economico con i connazionali volontari aderenti alla Repubblica di Mussolini. In caso contrario incombeva, questa volta senza attenuazioni derivanti dal grado, la crudele minaccia di essere retrocessi – come i soldati – a schiavi del Reich e impiegati in logoranti e disumane attività di supporto allo sforzo bellico.

Se questo valeva per gli ufficiali, la possibilità di far rientrare gli eventuali ex internati (sottufficiali e truppa) in un contesto tutto italiano era nella sostanza invece un miraggio, adoperato dai nazisti per facilitare le conversioni, ma mai un chiaro indirizzo di pacificazione con le autorità italiane fedeli all’Asse.

Nella folle logica della propaganda e dell’utilizzo indiscriminato di massa umana, tutta l’operazione si rivelò un autentico e opportunistico mercimonio di vite umane. Mussolini, ormai finito come uomo politico, non poteva che soccombere alle ulteriori prepotenze naziste, accontentandosi delle briciole offerte e disinteressandosi di così tanti suoi connazionali, che venivano per la seconda volta abbandonati al loro destino, dopo l’indifferenza abulica del Governo di Badoglio.

Ignari della loro sorte, del giro d’affari e degli interessi che ruotava intorno a loro, gli internati italiani reagirono al variegato bombardamento propagandistico in modo sorprendente. Posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia (che per i soldati comportava il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni) e l’adesione al nazi-fascismo (che avrebbe aperto la via del ritorno in Italia e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle condizioni di vita), in gran maggioranza gli italiani coinvolti preferirono la lealtà alle istituzioni del Sud e rivendicarono la loro dignità di uomini con una tenace resistenza alle notevoli pressioni fisiche e psicologiche. Altre motivazioni di questo rifiuto potevano essere ricercate pure nella consapevolezza che l’esito della guerra era ormai segnato o nel timore di non essere impiegati in Italia, ma sul fronte orientale.

In questo modo gli internati opposero un rifiuto netto alle offerte e alle pressioni e, per un intreccio di motivazioni scelsero la difficile strada della resistenza, di massima passiva, ma a seconda dei casi sfociante in un impegno attivo di ostacolare i progetti dei carcerieri tedeschi. In assenza di ordini e ormai decaduta ogni forma di autorità o di spirito di corpo dei reparti disciolti a causa degli eventi, la fiera resistenza degli internati italiani fu ammirevole e sorprendente.

Senza possibilità di risalire a un piano organico e meditato, il desiderio di opporsi al sopruso e al progetto di dominazione ariana si espletò in forme singole da lager a lager, rivelando una coesione spirituale, forse mai espressa durante la guerra dalle truppe italiane. Il rifiuto di aderire alle ipotetiche allettanti offerte dalle autorità dell’Asse era spinto sia su base politica che etica da sentimenti di autentico antifascismo. Tuttavia queste motivazioni non erano frutto di considerazioni di tipo teorico o ideologico, ma piuttosto nate dall’esperienza stessa del regime totalitario, della illusoria guerra e della scomoda alleanza con la Germania. Non furono isolate poi le vere e proprie azioni di ostacolo attivo, attraverso l’impiego di rudimentali apparecchi ricetrasmittenti, con la pianificazione di opere di sabotaggio sia interne ai campi, sia in collaborazione con le locali formazioni partigiane o di opposizione politica.

Intanto lo sfruttamento continuava. In assenza dei maschi adulti tedeschi, arruolati e spediti sui fronti, gli IMI furono impiegati nelle miniere in Renania e in Slesia, nelle fabbriche per armamento bellico, in quelle dell’industria pesante, in attività edili, nello sgombero delle macerie, nella manovalanza nei campi, nel carico e scarico di convogli ferroviari o di strutture portuali. La produzione industriale e agricola nel Reich dipendeva ormai dalla disponibilità di milioni di braccia straniere, lavoratori civili più o meno volontari, lavoratori coatti prelevati con la forza in genere in paesi slavi, prigionieri di guerra, prigionieri civili dei paesi assoggettati ed ebrei. I soldati italiani entrarono a far parte di questo esercito a un livello inferiore rispetto ai lavoratori civili e superiore ai deportati politici e razziali.

Nel frattempo la guerra andava sempre peggio per l’Asse e dalla primavera 1944 anche nella sfrenata ricerca di materiale umano per la sempre più improbabile vittoria, anche gli ufficiali italiani vennero adibiti al lavoro.

Il 20 luglio del 1944 poi tutti gli internati italiani, secondo un accordo tra Hitler e Mussolini, vennero smilitarizzati d’autorità e definiti lavoratori civili volontari, volendo aprire un illusorio spiraglio di miglioramento nelle loro condizioni. Di qui un leggero aumento delle adesioni di cooperazione, rispetto ai tentativi precedenti, con una percentuale approssimativa di collaborazionisti stimata intorno al 25% tra gli ufficiali e del 10% tra i soldati.

ra il 1943 e il 1945 circa 200.000 scelsero di aderire come militari o ausiliari alle Forze armate di Salò, anche se alla fine andarono piuttosto a rinverdire le file di operai nelle retrovie della Wehrmacht, della Luftwaffe o del servizio volontario tedesco. I rimanenti circa 600.000 invece, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano nei lager, rimasero fedeli al giuramento prestato alla Patria, rifiutando le reiterate offerte.

La concessione del luglio 1944 era mossa ancora da considerazioni utilitaristiche relative alla situazione dell’economia bellica del Reich. L’obiettivo era una maggior rendimento produttivo della loro forza lavoro, scaturito dalla possibile motivazione dei prigionieri stessi. Tuttavia anche per coloro che si fecero allettare non scattò la libertà nel senso pieno del termine: furono sempre impiegati in attività dure e poco gratificanti, ma soprattutto non vi fu l’agognato rimpatrio.

Anche per questo motivo circa 70.000 ex IMI rifiutarono di firmare il cambiamento di status giuridico. Essi continuarono ad essere obbligati in forma arbitraria e in modo unilaterale al lavoro forzato su un orario settimanale, che sfiorava le sessanta ore. Le razioni quotidiane erano magre, spesso integrate da scarti alimentari, recuperati dai rifiuti, oppure da piccoli animali (come ratti, rane e lumache) cacciati all’occasione. Le malattie erano frequenti, aggravate dalla mancanza d’igiene e di vestiti adeguati, dalla malnutrizione. Tra le più frequenti tubercolosi, polmonite, pleurite e tifo, oltre a infezioni di ogni genere.

Se la “civilizzazione” non fu di nessun miglioramento nelle condizioni umane e spirituali dei lavoratori volontari o coatti, essa a fine guerra si rivelerà purtroppo un atroce boomerang, perché darà il pretesto per togliere agli internati anche quella parvenza giuridica di appartenenza a Forze armate regolari. Prima di rientrare in Patria e scoprire questa amara verità, molti scampati transitarono al momento della “liberazione” per altri campi francesi o russi, per essere quindi liberati anche diversi anni dopo il 1945.

Finita la guerra ogni possibile riconoscimento adeguato o eventuale indennizzo agli ex internati fu negato, a causa sia dei cavilli giuridici adoperati dalle autorità internazionali (non potendosi applicare la Convenzione di Ginevra), sia per una diffusa e vergognosa ignavia verso questi uomini delle maggiori istituzioni italiane, che spesso hanno posto sotto silenzio questa drammatica pagina di storia nazionale. Le logiche della politica politicante, la necessità di seppellire il passato facendo una somma zero tra torti compiuti e subiti, l’astuzia degli ex fascisti di sapersi riciclare democratici e quindi non interessati a rivangare il passato con possibili processi per crimini di guerra, portarono l’Italia postfascista a soprassedere su questa tematica. Per di più l’internamento diveniva quasi una colpa. Agli occhi dell’opinione pubblica della Repubblica non importava chi era stato abbandonato dallo Stato, ma solo che anche dopo l’armistizio era ancora e in maniera persistente un perdente.

Per questi e per tanti altri motivi tale esperienza bellica fu, per molti che l’avevano vissuta, in modo rapido rimossa, accantonata, dimenticata. Perché riaprire pagine personali dolorose e umilianti, magari di fronte a possibili accuse di codardia o incapacità di combattere in un contesto culturale, come quello degli anni Cinquanta-Ottanta, in cui l’unico simbolo di rigenerazione dal fascismo era incarnato dal partigiano combattente?

1 G. Schreiber, I militari italiani internati, USSME, Roma 1992, p. 791

La campagna d’Italia

La campagna d’Italia

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L’ora dell’Italia

Dopo la capitolazione delle ultime forze dell’Asse in Africa, appariva prossimo come campo di battaglia il turno dell’Italia. Caduta Pantelleria, ultima difesa prima del «sacro suolo della Patria», la Sicilia era ormai alle porte per gli anglo-americani, che dal 3 luglio iniziarono con insistenza una serie di violenti bombardamenti sulle città, sugli aeroporti e sulle principali basi militari.

Mussolini assicurò grandi difese per la Sicilia: impedimenti sulle spiagge (in quella circostanza coniò il termine «bagnasciuga» per intendere la striscia litorale tra mare e terra) e di fronte alle coste, ma la realtà si rivelerà ben diversa. L’operazione Husky, nella sua limitata potenza, era di notevole preponderanza rispetto alle esili forze italiane. La Marina alleata era padrona del mare, l’Aeronautica padrona dell’aria. L’8^ Armata britannica di Montgomery sbarcò tra Siracusa e Noto, la 7^ Armata statunitense, comandata da Patton sul litorale di Gela. La difesa si rivelò inadeguata, le piazzaforti (come l’imprendibile Augusta) erano state nel grosso abbandonate. Solo le divisioni tedesche riuscirono a concentrare un sufficiente contrasto, ma i forti bombardamenti avevano annientato ogni possibile resistenza. I rapporti tra italiani e tedeschi si rivelarono più difficili del solito: Kesselring per esempio pensò persino di ripiegare e di abbandonare l’isola con il proposito di formare una difesa più solida sul continente. Intanto mentre Montgomery trovò difficoltà nella zona di Catania, Patton con un’azione poco ortodossa, eludendo tra l’altro gli ordini superiori, aggirò i nemici, liberò Palermo e Cefalù, raggiungendo poi in una corsa contro il tempo Messina, per sottrarre la vittoria allo scomodo alleato Montgomery.

 

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La caduta del fascismo

Lo sbarco alleato e la rapidità con la quale gli anglo-americani stavano avanzando sull’isola avevano seminato stupore e costernazione nel paese, creando disappunto e preoccupazione nel governo e aumentando il malumore all’interno del Partito fascista e nelle alte gerarchie militari. La caotica realtà della situazione in Sicilia spinse numerosi gerarchi a chiedere a Mussolini la convocazione del Gran Consiglio del fascismo, che ormai non veniva indetto dal 1939. La delegazione, composta tra l’altro da Farinacci, De Bono, De Vecchi, Acerbo, Scorza, Ciano e Grandi, si riunì il 24 luglio. Proprio quest’ultimo si rese portavoce di un ordine del giorno, che aveva come scopo quello di chiedere il riequilibrio dei poteri e delle forze all’interno delle istituzioni del Regno e quindi di condannare implicitamente l’operato politico e militare del dittatore. In quel frangente una parte importante e cospicua del fascismo chiedeva a gran voce la destituzione del loro capo. Mussolini tentò invano di acquietare il consiglio con una specie di arringa autodifensiva, ma il verdetto della votazione sulla mozione di sfiducia ottenne 19 voti favorevoli e solo 8 contrari. Mussolini, annunciando il verdetto, proclamò solennemente, come una specie di condanna: «Signori, con questo ordine del giorno avete aperto la crisi del regime». Il giorno successivo, 25 luglio, il Duce rimise l’incarico nelle mani del re, che sembrava ormai risvegliato da un letargo di oltre vent’anni. Accettate le dimissioni di Mussolini, che venne arrestato e condotto in un rifugio segreto, venne annunciata pubblicamente la caduta del fascismo e la nomina del maresciallo Pietro Badoglio a capo del Governo.

 

Armistizio-1943-Castellano-Eisenhower-Cassibile

 

La guerra continua

L’annuncio del cambiamento al vertice dello Stato investì tutto il popolo italiano, il cui stupore venne espresso da un fragoroso giubilo, come se fosse accaduto qualcosa da molto tempo sperato, ma per paura tacitato. La realtà si rivelò però ben diversa: anche se la dittatura era crollata e la libertà sembrava aver ritrovato un suo significato individuale, la situazione bellica non vedeva un così grande cambiamento. Al posto di un politico assoluto adesso c’era un veterano militare, non proprio di tradizione democratica, a condurre le sorti dell’Italia. La Sicilia era ancora un campo di battaglia e per quanto ancora ufficialmente in guerra, le forze armate italiane avevano perso, con il proclama del 25 luglio, ogni senso di mordente ed entusiasmo, preferendo la ritirata al proseguimento dei combattimenti, consapevoli di una sorte ormai già segnata da molto tempo. Nella confusione e nella più totale indifferenza il 17 agosto tutta la Sicilia venne occupata dagli Alleati.

Badoglio, da sempre fascista più per convenienza che per sentimento, maturò la convinzione che il futuro del paese fosse da ricercare in una veloce trattativa con la parte avversa. Il maresciallo aveva idee relativamente chiare sul da farsi a carattere diplomatico. All’opposto il comando alleato non si fidava degli italiani e non riteneva le posizioni di Badoglio sincere. Oltre a temere tranelli politici, non credeva nella solidità delle istituzioni italiane con i tedeschi in casa. Per questi motivi Eisenhower apparve molto cauto nel patteggiamento e nel fissare i criteri di resa, in quanto l’Italia, nelle condizioni in cui si trovava, non avrebbe dato piene garanzie di stabilità.

A questo punto il governo italiano segretamente entrò in dialogo con le alte sfere anglo-americane e firmò un armistizio il 3 settembre a Cassibile, che venne proclamato pubblicamente solo il giorno 8 settembre con un drammatico comunicato alla radio, in cui si chiedeva la resa senza condizioni agli Alleati. Tuttavia la notizia si rivelò volutamente ambigua per il popolo e per le forze armate italiane, perché non chiariva bene la situazione esistente. Se gli anglo-americani erano ormai da considerare amici, i tedeschi, desiderosi di lavare con il sangue il tradimento appena compiuto, per il governo italiano non erano ancora da trattare ufficialmente come nemici. La commedia degli inganni era al suo apice, però non ingannava ormai più nessuno.

 

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Tutti a casa

Dopo la resa agli Anglo-americani, le forze armate italiane si trovarono in una crisi profonda, anche perché la dichiarazione di armistizio svincolata da ogni consultazione preventiva con l’alleato germanico favoriva un senso di tradimento e di ostilità nei propri riguardi. I tedeschi erano pronti a infliggere una severa lezione ai volgari traditori, proprio perché dalla loro avevano una superiorità militare nel paese con la dislocazione di reparti in piena efficienza sull’intera Penisola. La tattica del proclama di Badoglio era fin troppo chiara a Berlino: l’Italia era diventata un perfido nemico, vano il tentativo di occultare nel discorso dell’armistizio con giri di parole la realtà. Il governo italiano in questa circostanza non aveva avuto il coraggio di dire chiara la verità, cioè che bisognava prepararsi a combattere contro gli ex alleati.

L’esercito, «agli eventuali attacchi» a cui Badoglio accennava per radio, cercò di reagire, ma gli armamenti erano scarsi, le gerarchie erano interrotte e in Italia vi erano quasi più soldati tedeschi che italiani. Badoglio e il re, dato l’ordine sostanziale di arrangiarsi, di risolvere la situazione alla meglio, abbandonarono una Roma circondata da schieramenti tedeschi. Il loro piano era di raggiungere in gran segreto Pescara in auto, per poi raggiungere Brindisi con l’incrociatore Baionetta. Per le alte istituzioni politiche e militari le sorti della nazione, della popolazione e delle forze armate erano cosa di secondo piano, rispetto alla continuità della monarchia e del governo.

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Le due Italie

Hitler, dopo la caduta in disgrazia di Mussolini, ebbe come proposito quello di preparare un piano di liberazione, ma il governo italiano spostò il Duce numerose volte, proprio per evitare un suo ritorno alla scena politica. Solo dopo l’armistizio un piano poté essere attuato con possibilità di successo: il 12 settembre iniziò l’operazione, con l’impiego di aerei e un reparto di paracadutisti tedeschi, che atterrarono a Campo Imperatore sul Gran Sasso, dove senza colpo ferire Mussolini venne liberato. I carabinieri che lo tenevano prigioniero non opposero alcuna resistenza ai liberatori, anche perché essi non avevano ricevuto alcun ordine preciso per circostanze simili. Il dittatore italiano venne quindi accolto da Hitler in Germania, per la programmazione della vendetta. Mussolini si riorganizzò, tornò in Italia e proclamò la Repubblica Sociale Italiana con sede principale Salò. Il 9 settembre, in base alle clausole della resa, iniziò un operazione in forze per lo sbarco alleato su Salerno. Le difese risultano inesistenti, divisioni aerotrasportate alleate si impadronirono anche di Taranto e di altre rilevanti posizioni strategiche del Sud. Intanto a Roma i partiti antifascisti, che si erano messi a capo della situazione dopo la fuga del governo, iniziarono a organizzare contro i tedeschi una struttura paramilitare adeguata alla difesa del territorio. Ecco quindi la formazione del C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale) che espresse la sua azione attraverso numerose formazioni partigiane soprattutto al Nord.

Mentre a Roma la situazione stava precipitando e le ultime difese militari a Porta San Paolo ven­ivano annientate, a Napoli iniziarono le cruente 4 giornate (27-30 settembre), dove alla collera della popolazione venne dato ampio sfogo, per liberare la città dall’occupazione tedesca. Alla lotta si unirono anche donne e bambini (i famosi scugnizzi), che poco armati, ma con un vivo desiderio di libertà opposero una notevole opposizione, schierandosi contro i tedeschi.

Loyal_Edmonton_Regiment_infantry_and_Three_Rivers_Regiment_Sherman_tanks_advancing_in_Ortona_December_1943

La lenta avanzato degli Alleati

All’arrivo delle truppe statunitensi della 5^ armata, comandate dal generale Mark Clark, la città partenopea era già stata liberata. Le truppe anglo-americane, quindi si polarizzarono tutte verso Nord, per concentrare le forze nella liberazione di Roma, ma la situazione appariva più difficile delle aspettative. I tedeschi, ormai molto organizzati, opposero difese considerevoli sulla Linea Gustav, al confine tra Campania e Lazio, con un massiccio uso delle fortificazioni sul promontorio di Cassino. Le truppe alleate non riuscivano a sfondare la linea, a fronte dei ripetuti attacchi che non sbloccarono il trinceramento in Ciociaria. I fitti bombardamenti della zona arrecarono una spaventosa tragedia umana e un danno immenso di tipo storico-artistico con la distruzione dell’abbazia di Montecassino. Per questo iniziò la progettazione di un’azione di aggiramento per mare. Il 21 gennaio iniziò l’operazione di sbarco ad Anzio, dove le truppe britannico-statunitensi non trovarono ostacolo, perché tutte le riserve tedesche erano state dislocate a Cassino. Un attacco veloce e l’avanzata verso Roma sarebbero stati fulminei e vittoriosi, ma il generale John Lucas, comandante delle truppe sbarcate, si rivelò titubante e fece rimanere sulle spiagge gli uomini in attesa dei rifornimenti e dei rincalzi. Questa mossa troppo prudente fece sfumare anche u’eventuale azione dei partigiani romani, che avrebbe garantito un’ottima opera propagandistica e una tappa decisiva per l’intera campagna d’Italia. Questa mossa portò alla perdita di tempo prezioso e del vantaggio iniziale. Si diede il tempo ai tedeschi, ora arrivati sulle spiagge, di organizzarsi e di porsi in punti strategici e quasi imprendibili. Il cannone tedesco Anzio-Express martellava con insistenza le truppe alleate. La vera responsabilità tuttavia non era di Lucas, ma di Alexander e di Clark, troppo timorosi e troppo legati ai rispettivi comandi superiori e alle loro direttive politico-militari. Intanto a Roma la Resistenza continuava le sue azioni di diversione, anche grazie all’aiuto dell’O.S.S., lo spionaggio alleato.

 

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C.L.N. e gli Alleati

Il giorno 4 giugno, mentre nei cieli della Normandia già si respirava aria inquieta, gli statunitensi erano già per le strade di Roma. Clark entrava da vincitore nella capitale, osannato dalle folle. La città era rimasta intatta per le azioni dell’O.S.S. in collaborazione con i gappisti, formazioni partigiane locali dedite ad azioni di sabotaggio e d’intelligence contro i nazi-fascisti. Proprio per questo motivo era stato inviato a Roma il capitano Peter Tompkins, che doveva coordinare l’avanzata alleata con le azioni partigiane in città. Questi riuscì nel suo compito perché i suoi collaboratori romani, che vennero catturati e torturati a via Tasso non rivelarono mai la sua identità e la sua base operativa. Intanto anche la politica cominciava a Roma nel suo lavoro.

Se nelle strade si esultava alla liberazione, in città si riunirono i principali esponenti dei partiti antifascisti: De Gasperi, Bonomi, Saragat, Nenni, Togliatti e Croce. Essi diedero vita al nuovo governo italiano antifascista, in collaborazione con quello del Sud e con le alte sfere anglo-americane. Le operazioni belliche continuavano su tutta la striscia italiana, tra l’Adriatico ed il Tirreno. Firenze venne liberata venne liberata in agosto. Clark e Alexander guidarono l’avanzata verso il Nord, grazie ai soliti buoni contatti di spionaggio e di collaborazione dietro le linee con la Resistenza italiana. Come reazione Kesselring scelse la ritirata, perché una difesa adeguata poteva essere realizzata solo sull’Appennino tosco-emiliano, sulla Linea Gotica. Con l’aiuto delle informazioni dei partigiani, armati e equipaggiati dall’O.S.S., Clark riuscì a scoprire il punto più debole del fronte, ma come al solito egli ebbe paura e in ottobre preferì fermarsi e non raggiungere Bologna. Seguì la rappresaglia dei tedeschi e dei repubblichini: vi furono numerosissimi casi dappertutto di feroci e sommarie esecuzioni di partigiani e civili come per esempio il drammatico episodio di Marzabotto (1.836 civili vennero trucidati dalle SS). Secondo un suo strano piano, Alexander ordinò ai partigiani di concludere le loro azioni nei boschi e tornare a casa, ma ciò sarebbe significato essere scoperti e fucilati, per questo il generale Raffaele Cadorna e gli altri capi delle formazioni del C.L.N. continuarono nelle loro imprese dietro le linee. Esse impedirono, seguendo un altro piano, alcuni bombardamenti programmati sul Ravenna, per evitare lo scempio della città d’arte. L’azione ebbe successo, la città fu salva, ma per ordine del Duce le ceneri di Dante vennero prese dai repubblichini e portate a Milano. Mussolini, sempre altalenante tra Milano e Salò, preparava ancora le sue milizie scelte: i Battaglioni M, le Brigate Nere, le SS Italiane e la X Flottiglia Mas di Valerio Borghese che al fianco delle truppe di Kesselring si impegnavano attivamente nei rastrellamenti e nelle azioni punitive. Nell’altro schieramento i 6 Gruppi di Combattimento (Folgore, Friuli, Piceno, Legnano, Cremona e Mantova) del ricostituito Regio Esercito Italino uniti ai paracadutisti polacchi continuarono negli attacchi sulla valle Padana. Intanto anche nel Nord-ovest la liberazione delle città procedeva con numerosi successi. Oltre alla formazione delle cosiddette “Repubbliche partigiane” (Bobbio, Ossola, Langhe, ecc.), iniziarono le sommosse popolari a Genova e a Torino. In quest’ultima, la brigata Garibaldi si impossessò persino di un carro nemico, impiegandolo per cacciare i tedeschi.

Venezia_aprile_1945

L’epilogo di Salò

A Milano tra il 24 ed il 25 aprile il C.L.N. iniziò le trattative di resa con Mussolini, attraverso il contatto del cardinale Schuster all’arcivescovado. Pertini, Cadorna e gli altri membri del C.L.N. Alta Italia erano molto risoluti e si dimostrarono intransigenti di fronte alle condizioni poste dai fascisti. Il Duce informò delle trattative solo il maresciallo Graziani e il prefetto Bassi, escludendo non solo i tedeschi, ma gli altri suoi più stretti collaboratori. Pertini aveva paura che i tentennamenti di Mussolini fossero in realtà finalizzati a prendere tempo alla ricerca di nuovi contatti e quindi scappare. Il dittatore il 25 aprile intanto accusò con vigore i tedeschi di tradimento, perché questi a sua insaputa avevano anche loro iniziato negoziati in Svizzera con gli Alleati. Mentre Mussolini discuteva con il comando tedesco, sui tradimenti e sulle responsabilità, le spie alleate si unirono al C.L.N. di Milano, per organizzare la resa senza condizioni e la cattura di Mussolini. Il Duce, nella confusione delle trattative, insieme a un manipolo di uomini, trovò la fuga da Milano e si diresse verso la Valtellina. Il suo proposito era raggiungere la Svizzera e allacciare una via preferenziale con il governo britannico. Al contrario i generali Graziani e Wolf si arresero agli statunitensi. Il C.L.N., temendo un salvacondotto americano a favore del dittatore (magari in funzione antisovietica), nell’intento di catturare e giustiziare Mussolini, inviò a Dongo sul Lago di Como il 28 aprile un manipolo di uomini, di cui ancora oggi si ignorano le reali identità. Questi arrestarono il Duce e Claretta Petacci e li giustiziarono «in nome del popolo italiano». Il giorno seguente, mentre gli Alleati si avvicinavano a Milano, a Piazzale Loreto vennero esposti i corpi senza vita di Mussolini e degli altri gerarchi, con lo stesso rituale con il quale era stato fatto scempio anni prima degli oppositori politici antifascisti. Il popolo milanese inveì con crudeltà le salme di quei uomini che per venti anni aveva osannato.

Mussolini_e_Petacci_a_Piazzale_Loreto,_1945

La campagna di Russia

La campagna di Russia

La campagna di Russia

22june1941 (1)

Russia, terra di conquista

Durante i secoli le terre dell’Est sono sempre state oggetto di ripetuti attacchi; nel 1242 l’ordine germanico dei cavalieri teutonici attaccò la Russia, ma essa sotto il comando del giovane quanto abile Aleksandr Nevskij si impose nella battaglia del lago ghiacciato Peipus; gli invasori, di gran lunga meglio armati, dovettero ripiegare. Ancora nel 1704, Carlo VII di Svezia avanzò attraverso la Carelia, ma l’imperatore Pietro il Grande organizzò il contrattacco e annientò l’avanzata svedese. Nel 1812 fu il turno della Francia: le armate di Napoleone Bonaparte, dopo aver sgominato mezza Europa avanzarono in direzione di Mosca, che però le accolse con fiamme e miseria. I conquistatori dovettero ritirarsi per sal­vare la pelle. Ancora l’esercito tedesco nel 1914 riprovò nell’impresa: il Kaiser Guglielmo II ordinò l’avanzata. Il popolo russo si trovava schiacciato dall’invasore e dalle lotte interne; solo la repentina capitolazione del Reich, permise la restituzione della ricca Ucraina, anche se dovette cedere territori dopo la guerra polacco-sovietica del 1920-21, che recuperò nel 1939 a seguito del protocollo segreto al patto di non aggressione.

La domanda che ci si pone é quindi, perché la Russia è stata soggetta a così tanti attacchi? Perché ha suscitato tanto l’interesse nei popoli europei in espansione? La risposta è chiara. La perpetua ricerca del Lebensraum. Basta osservare la fisionomia della Russia e si spiegano i molti e ripetuti interessi verso le lande dell’Est europeo. Essa occupa 1/6 della superficie terrestre, nel quale si ha una ricchezza smisurata di materie prime, a partire dall’oro e l’argento fino ad arrivare al rame, al ferro, al legname, al carbone, al petrolio. Le immense pianure sono miniere di generi alimentari, tra cui il grano. Anche l’allevamento è florido, producendo ottima carne e calda lana. I Russi (193 milioni nel 1941) erano la fusione di innumerevoli culture, diverse tra loro, ma con il tempo unite in un medesimo spirito nazionale. Non interessava se fossero lapponi, eschimesi, ucraini, armeni, curdi, turcomannni o mongoli. Erano tutti un solo popolo e amavano tutti allo stesso modo la loro terra. Nel 1941 come nel passato, tale zona, composta dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, faceva gola anche a Hitler, che nel Mein Kampf aveva proclamato: «Quando parliamo di nuovi territori dobbiamo pensare alla Russia, il destino stesso ci indica quella via».

 

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L’operazione «Barbarossa»

Per la completa conquista dell’Est, bisognava prima impossessarsi delle terre confinanti e di tutte quelle nazioni che si frapponevano. In questo senso il pieno controllo dei Balcani era strategico e vitale. Essi risultavano molto importanti per la geopolitica, ma anche necessari economicamente: oltre ai vasti campi di grano, l’Ungheria aveva la bauxite, la Romania il petrolio, la Bulgaria fondamentali basi marittime sul Mar Nero. Nel marzo del 1941, con impegni diplomatici e tradimenti di capi di Stato, tutti questi paesi erano passati nell’orbita di Berlino. Mancavano solo la Iugoslavia e la Grecia. L’Italia si incaricò di occuparsi di quest’ultima. Il Duce inneggiò alla vittoria: «Spezzeremo le reni alla Grecia». Non andò così. L’attacco fu un fallimento, anzi i soldati ellenici, con le loro buffe divise, contrattaccarono e entrarono in Albania. Hitler, infuriato per l’umiliante impresa e per il ritardo dell’attacco verso Mosca, inviò un ultimatum alle piccole comunità di resistenza, che in ogni caso mantennero le loro posizione. La Germania non ebbe pietà, aprì l’attacco e devastò intere regioni. Anche un corpo di spedizione inglese, venuto in aiuto agli ellenici, fu obbligato a ripiegare in Egitto. A fine aprile la svastica sventolava su Atene.

L’Europa orientale ormai era tutta nelle mani tedesche e quindi ora era possibile l’avanzata contro l’Unione Sovietica. Il 22 giugno su un fronte che partiva dal Mar Nero e arrivava al Baltico vi fu un attacco multiplo, integrato anche dalle truppe amiche della Finlandia a Nord. 12 milioni di soldati dell’Asse marciavano, avendo tre obiettivi: Leningrado, Mosca e Kiev. Il 7 luglio Fedor von Bock raggiunse Smolensk, praticamente l’ultimo baluardo prima di Mosca, Gerd von Rundstedt completava invece l’occupazione dell’Ucraina.

 

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La Grande guerra patriottica

L’avanzata dei reparti tedeschi si presentava fulminea e devastante. Tutto ciò portava a ritenere una vittoria come vicina, ma la situazione era tuttavia diversa. L’esercito tedesco, come nel caso inglese, si trovava di fronte a un popolo, che era disposto a perdere la terra, ma non la propria indipendenza. Dopo un primo disorientamento, causato dall’impreparazione bellica e alla soverchiante tattica d’attacco, le truppe sovietiche indietreggiavano, ma allo stesso tempo logoravano il nemico. Prima di fuggire bruciarono e distrussero tutto ciò che poteva essere utile all’invasore. I pozzi petroliferi vennero resi inservibili, centrali elettriche e dighe, ultimate dopo anni di lavoro, vennero trasformate in polvere. I carri armati tedeschi, se nelle vaste pianure trovavano campo aperto, si rivelavano inservibili in città, perché ogni cittadino e non solo l’esercito resisteva nelle strade e nelle case. Dovunque era possibile distogliere e decimare gli invasori, anche con combattimenti a corpo a corpo. Le città vennero trasformate in roccaforti per i trinceramenti e il sabotaggio. Odessa e Sebastopoli inchiodarono per mesi l’11^ Armata del generale Erich von Manstein, prima di raggiungere il Mar Nero. La tecnica della terra bruciata, utilizzata contro Napoleone, venne impiegata di nuovo con ottimi risultati. Tutto il popolo, dai bambini agli anziani, chiamato a raccolta dai discorsi patriottici di Stalin, si impegnò nello sforzo bellico. Arrivato l’inverno, le parti si scambiarono, i tedeschi iniziarono a difendersi, perché i sovietici iniziavano il contrattacco. Quello che era accaduto centocinquanta anni prima venne replicato. Se i tedeschi avessero letto «Guerra e pace», forse avrebbero previsto la loro sorte, avrebbero anche loro conosciuto la sconfitta e la morte. La città di Mosca, distante solo 30 chilometri dal fronte, venne difesa con insistenza e nessun soldato tedesco vi riuscì a entrare da invasore.

Il contrattacco del generale Georgy Zhukov con nuove truppe provenienti dalla Siberia, addestrate al freddo e quindi adatte al tipo di guerra in cui vennero lanciate, non solo difesero la loro capitale, ma iniziarono anche un attacco micidiale contro le stanche e logorate divisioni tedesche.

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L’assedio di Leningrado

A Nord del paese la città di Leningrado, antica capitale dell’impero zarista, era un succulento obiettivo per Hitler: nevralgica base navale, fiorenti industrie a poche miglia dalle linee tedesche e finniche. La città sin dall’inizio dell’avanzata era stata bersaglio di una serie di spietati bombardamenti, che portarono all’assedio del centro abitato e al suo completo isolamento dal resto della nazione. I tedeschi inviarono un ultimatum di resa, ma non ebbero risposta, avviando così un assedio di quasi 17 mesi, esempio senza precedenti. Anche qui arrivò l’inverno, ma non fu certo un alleato dei sovietici: i 30° sotto zero risultavano un nemico micidiale per la popolazione, che combatteva contro il freddo, la carestia e contro le malattie. All’ordine del giorno era la mancanza di cibo, di acqua, di materie prime e delle armi per difendersi. Il razionamento dei generi alimentari era drastico: 300 grammi di pane per un operaio, per il resto della popolazione la razione era ridotta ancora della metà. Cresceva il numero di morti, per questo si facevano fosse comuni per isolare i cadaveri, portatori di malattie e infezioni, ma all’ordine del giorno erano anche i casi di cannibalismo o di alimentazione con tutto ciò che si poteva reperire, come la colla dalle pareti. Intanto i bombardamenti continuavano senza sosta, la distruzione era quasi completa, le incessanti azioni punitive per distruggere l’animo e il morale risultavano quotidiane. A tutto ciò si contrapponeva il forte impegno della popolazione, sempre al lavoro o nelle trincee difensive che circondavano il centro abitato.

Ad Est della città c’era il lago Ladoga, in questo periodo ghiacciato, e alla sua estremità orientale restava ancora una parte di costa in mano russa. Per riallacciare i contatti, sulla distesa solida vennero costruite strade e una ferrovie per collegare la città con la capitale. I tedeschi, accortisi della situazione e della via di comunicazione ancora in mano del nemico, iniziarono un martellante bombardamento anche su questa ultima via di soccorso, ma le comunicazioni resistettero. A Leningrado arrivavano ogni giorno cibo e rifornimenti, da essa partivano i malati e gli anziani. Il lago salvò la città anche in primavera, quando iniziò a scongelarsi, permettendo di farla ritornare alla vita e continuare la lotta in maniera attiva con impegnativi scontri ai danni degli assedianti che dopo l’inverno erano in forte difficoltà. Intanto da occidente anche gli alleati britannici e statunitensi rifornivano con continuità Leningrado attraverso le loro flotte, forzando il blocco tedesco.

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Gli scontri nel Caucaso

Altro vitale obiettivo di Hitler era la conquista dei campi petroliferi del Mar Caspio. Per rag­giungerli però non solo era necessario superare il montuoso Caucaso, ma anche catturare la città di Stalingrado, dividere il Sud della nazione da Mosca e isolare e paralizzare l’intera Russia. Sul fronte meridionale facevano manforte ai tedeschi, truppe italiane (dello CSIR, divenuta poi ARMIR e comandata dal generale Giovanni Messe), rumene, ungheresi e di tutte le nazioni che ideologicamente con spirito di crociata volevano sconfiggere la Russia atea e bolscevica. Dopo un anno di aspri combattimenti in Ucraina, nel maggio del 1942, dopo aver superato anche la Crimea, la città di Rostov e il fiume Don si arrivò ai sobborghi della città, ma le zone raggiunte erano tutte distrutte. Conquistare Stalingrado significava bloccare i rifornimenti alleati dalla Persia e spezzare così in due la forza sovietica, ma la situazione appariva più difficile del previsto. A Sud i monti restavano invalicabili e Stalingrado resisteva agli incessanti bombardamenti e ai feroci attacchi che raggiunsero il centro abitato. La città si tramutò in un labirinto di assalti e di azioni di sorpresa dei russi. I tedeschi non riuscirono più a tenere in pugno la situazione e rapidamente si scompaginarono, mentre l’inverno sopraggiungeva, più pericoloso che mai.

Intanto in Africa la situazione andava al peggio per l’Asse e i russi usufruirono dell’importanza della cooperazione tra più fronti nelle operazioni multiple contro i nemici. L’attacco sovietico iniziò in dicembre e accerchiò i tedeschi in una sacca ricongiungendosi con i loro compagni liberatori. In tal maniera i tedeschi in armi erano completamente scacciati dalle zone del Caucaso: il generale Friedrich Von Paulus, comandante supremo delle forze tedesche nella regione, venne catturato il 31 gennaio. Questi, che aveva minacciato di far uccidere la famiglia a chiunque si fosse arreso, ora vedeva nel suo futuro la stessa sorte per mano di Hitler, che lo aveva da pochi giorni nominato feldmaresciallo. Per tale motivo, il dittatore nei suoi consueti comunicati maledì quelli che lo avevano tradito e si impose di non nominare più nessun generale al massimo grado delle gerarchie militari.

La battaglia di Stalingrado rappresentò un evento epocale, forse il più significativo di tutta la guerra. Sul fronte maggiormente impegnativo, dove la potenza tedesca indirizzò il massimo delle sue risorse, degli uomini e dei materiali, venne respinta una volta per tutte la continua avanzata del Reich. Si calcola che la sola Armata rossa sul fronte dell’Est causò ai tedeschi circa l’80% delle perdite complessive di tutta la Seconda guerra mondiale. Dopo Stalingrado le truppe dell’Asse non solo cessarono di avanzare in territorio straniero, ma da quel momento per le armate di Hitler iniziò una lunga e progressiva ritirata su ogni fronte, per essere poi ricacciati ben oltre i propri confini nazionali.

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La Campagna del Nord Africa (1940-1943)

La Campagna del Nord Africa (1940-1943)

La campagna nel Nord Africa

 

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L’Italia in guerra

Alla fine degli anni Trenta le forze armate italiane erano in gravi condizioni: le armi erano scarse e di vecchio tipo, l’Aeronautica usava apparecchi antiquati, la Marina era indifendibile e mancante di portaerei. Per giustificare questa ultima mancanza Mussolini aveva affermato che la stessa Italia era da considerarsi una gigantesca portaerei. Il paese, durante le sfilate, poteva mostrare al mondo solo i famosi fantomatici «otto milioni di baionette». Le guerre di Etiopia e di Spagna avevano dimostrato i limiti dell’Italia, ma nessuna riforma sostanziale era stata apportata per modernizzare la struttura militare. La campagna d’Albania, risultata vittoriosa, aveva elevato notevolmente il morale, ma non coglieva l’autentica situazione militare. In realtà ben pochi sapevano che si era rivelata una tragedia. Lo sbarco si era svolto in una confusione indescrivibile, tra urla e sconquassi, con gente finita in mare con il rischio di annegare, navi impossibilitate ad attraccare perché non era stata calcolata la profondità dei fondali. Per questo i soldati furono trasportati a terra solo grazie a barconi richiesti ai pescatori locali. Scriveva Filippo Anfuso, allora braccio destro del ministro degli Affari Esteri Galeazzo Ciano: «Se gli albanesi avessero avuto anche solo una brigata di pompieri bene armati, avrebbero potuto ributtarci nell’Adriatico».

Le tradizioni belliche non erano delle migliori, ma si inneggiavano a eroi anche i comandanti con più sconfitte a carico. I generali italiani erano quasi tutti da pensione (tra i più giovani c’era Ugo Cavallero con sessanta anni), derelitti della Prima guerra mondiale, per la maggior parte fino ad allora nell’anonimato; occorreranno le prime sconfitte per renderli «noti» alle cronache dei giornali. Le promozioni erano state concesse soprattutto per meriti fascisti o perché si apparteneva a nobili famiglie. Pietro Badoglio nel 1915 era tenente colonnello, nel 1919 divenne capo di Stato maggiore dell’Esercito e durante il Ventennio collezionò tanti prestigiosi incarichi, sopratutto per aver assecondato il regime, che nel frattempo aveva completamente rimosso dalla memoria nazionale la responsabilità materiale del generale per la rotta di Caporetto.

Per prendere tempo il Duce iniziò una lunga trattativa politica, che lo avrebbe legato alla Germania, sperando che la guerra potesse attendere alcuni anni, sia per mostrare al mondo la bellezza dell’Eur e della rinnovata civiltà di Roma, sia per preparare almeno sufficientemente le forze armate in un contesto di guerra europea. Ma la realtà fu ben diversa e il veloce impeto tedesco non poteva che accelerare le ambizioni di Mussolini. Le alte sfere delle forze armate sconsigliarono al Primo ministro l’entrata nelle ostilità in tempi brevi, ma questi vedeva la vittoria vicina e non si poteva permettere di astenersi dal tavolo della pace come vincitore. Dal balcone di Palazzo Venezia, quindi, il 10 giugno 1940 Mussolini, annunciando la dichiarazione di guerra, spronò i suoi generali ad attaccare sulle Alpi marittime contro i francesi e in Libia contro gli inglesi.

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L’avanzata italiana

Governatore della Libia era il maresciallo dell’Aria Italo Balbo, già quadrunviro della Marcia su Roma e grande pioniere del volo italiano. Padre putativo dell’Aeronautica militare italiana, durante gli anni Trenta fu il protagonista di numerose trasvolate e crociere oceaniche, da Orbetello a Rio de Janeiro, poi da Roma a New York e Chicago. Mussolini, invidioso della popolarità dell’aviatore e timoroso delle possibili ambizioni antagoniste di Balbo, lo aveva mandato in una prigione dorata a Tripoli. Qui egli amministrò in maniera efficiente la regione sabbiosa, costruendo la costiera via Balbia e chiamando dalla Penisola 30.000 coloni per trasformare il deserto in piantagioni. Tripoli diventava così una bella e ridente città del Mediterraneo, centro nevralgico di importanti traffici e collegamenti con la Madrepatria.

Il maresciallo come politico e come comandante militare si lanciò in prima fila nei combattimenti. In un’azione di guerra il 28 giugno Balbo partì da Derna con il suo Savoia Marchetti 79, quando sul cielo di Tobruch, l’incrociatore San Giorgio aprì il fuoco e squarciò l’aereo su cui volava. La guerra per l’Italia si apriva con un grave lutto, quello di uno degli uomini più rappresentativi delle forze armate e del regime. Una fine tragica, avvolta nel mistero. Balbo troppo ambizioso e ribelle per restare nell’ombra del capo del fascismo. Un uomo scomodo tra i gerarchi e troppo irriverente verso l’ortodossia totalitaria, perché amico degli ebrei. Per Mussolini, l’unico capace realmente, per capacità e carisma, di metterlo fuori gioco e prenderne il posto. Per il suo alto senso dell’onore e della lealtà, fu rimpianto anche dai suoi nemici.

In sua sostituzione da Roma venne inviato come comandante del fronte libico il generale Rodolfo Graziani, veterano delle campagne africane fin dal lontano 1908. Negli anni Venti impegnato quale governatore della Libia nella cruenta repressione del ribellismo arabo, nel 1937 si era impegnato con rigore all’espiazione delle bande abissine in Etiopia e si era fatto una cattiva reputazione agli occhi dei locali, per i suoi metodi quanto mai brutali e selvaggi. Il Duce gli ordinò di attaccare, affermando che non era necessario arrivare a El Cairo, l’importante era intervenire nello sforzo bellico, perché la pace era alle porte e dopo la Francia anche la Gran Bretagna avrebbe presto capitolato. A Roma serviva solo l’eticchetta di combattente per collocarsi di diritto al fianco della Germania, al momento di salire sul carro dei vincitori.

Il 15 settembre le truppe italiane iniziarono l’avanzata a piedi, a tappe forzate di 40 km al giorno nel deserto. All’esercito non era fornito neanche un abbigliamento adeguato, se si volevano utilizzare mezzi di trasporto, bisognava chiederli a privati, perchè quelli militari erano in numero limitato. Per gli approvvigionamenti delle armi vennero ripuliti i musei: si usava il fucile del 1891, la mitragliatrice del 1914 e i cannoni delle battaglie dell’Isonzo. L’avanzata risultava faticosa anche con i carri armati, denominati dai nemici «mini tank», dagli italiani «scatole di sardine». Tali mezzi, piccoli, scomodi, deboli e lenti avevano in dotazione semplici mitragliatrici, buone solo a spaventare le piccole tribù africane sugli altipiani etiopici, non certo per uno scontro alla pari con le truppe britanniche in campo aperto. I soldati italiani sfiniti raggiunsero Sollum e Sidi El-Barrani, impegnandosi in opere di trinceramento. Il comando britannico del Medio Oriente del generale Archibald Wavell ordinò al generale Richard O’Connor il contrattacco; il 9 dicembre iniziò la potente offensiva di appena 30.000 uomini, coperta dalla buona copertura aerea della Raf.

Per l’Italia iniziava il momento critico; le difese di frontiera del forte Capuzzo erano inesistenti, i soldati non potevano neanche fuggire, per l’assenza dei mezzi. I britannici avanzarono spediti in Cirenaica, occupando Bardia e gli importantissimi porti di Tobruch e di Bengasi. La regione era perduta, la linea si stabilì quindi prima ad Agedabia, poi ad El-Agheila. Gli attaccanti non si fermarono per ragioni militari, ma solo perché i rifornimenti non erano veloci quanto l’avanzata. Il comando italiano era in crisi, il generale Annibale Bergonzoli venne catturato. Graziani venne deposto e sostituito dal generale Italo Gariboldi. Sul mare la situazione non cambiava; per i convogli la distanza era breve prima di raggiungere i porti libici, ma la caccia della Raf non aveva pietà. Nel cielo la situazione era catastrofica perché i velivoli non erano adatti al deserto e gli aeroporti sabbiosi. Il radar era inesistente, non vi era alcuna collaborazione tra flotta aerea e marina, fattore che provocava spesso, per errore, scontri tra le stesse Regia Marina e Regia Aeronautica.

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La pista della Volpe

Mussolini, cosciente del profondo insuccesso che vedeva l’Italia ormai completamente fuori gioco in Libia, chiese nel gennaio del 1941 aiuto all’alleato Hitler, che inviò dal mese successivo un’ingente armata di soldati ben addestrati e ben equipaggiati: il Deutsche Afrika Korps. Esso aveva mezzi a sufficienza e idonei al combattimento nel deserto; i suoi uomini inoltre non conoscevano la sconfitta, come non la conosceva il loro nuovo comandante, il tenente generale Erwin Rommel, grande protagonista della Grande Guerra e della campagna di Francia. Questi aveva 49 anni, non aveva nessuna esperienza di combattimenti in Africa, ma aveva già in mente un piano e grandi manovre da attuare. Per le operazioni parlava direttamente con Roma, scavalcando Gariboldi, che in teoria era il comandante supremo in Libia. Per il generale tedesco il fattore principale era la rapidità e la sorpresa, elementi necessari per raggiungere e occupare Suez e il Medio Oriente. Senza ordini precisi, l’avanzata ebbe inizio. Vennero liberate in pochi giorni El Agheila e Bengasi; senza rendersene conto si trovò catturato anche O’Connor, insieme al suo Stato maggiore. Le truppe britanniche iniziarono caoticamente la ritirata, lasciando comunque un buon presidio a Tobruch. Esse già risultarono affascinate e atterrite dal mito che si stava costruendo intorno al loro nuovo avversario: la «Volpe del deserto».

Intanto la Germania stava attaccando l’Unione Sovietica e tatticamente i due fronti si trovavano associati per la realizzazione dell’avanzata a «doppia tenaglia» verso Est. La veloce spinta in avanti portò Rommel ad accelerare ancor più il suo cammino; al contrario Gariboldi avrebbe preferito fermarsi per orientarsi sui prossimi obiettivi. Il rapporto di forza era a svantaggio dell’italiano e non venne ascoltato. I tedeschi proseguirono quindi senza sosta e i soldati italiani con marce forzate tentarono di tenete il ritmo dell’avanzata. Il grosso delle truppe era a piedi, i pochi mezzi a disposizione erano quelli civili prestati dai coloni.

Intanto in Africa orientale l’esercito italiano fu sconfitto e si arrese con dignità e onore dopo insostenibili scontri. All’Amba Alagi Amedeo d’Aosta, viceré d’Etiopia, dopo un’ultima disperata difesa si consegnò ai britannici, dove ricevette l’onore delle armi dai reparti inglesi vincitori. Morirà nel marzo del 1942 in prigionia a Nairobi in Kenya, sepolto con solenni esequie militari.

Nel frattempo nel Mediterraneo la situazione iniziava a migliorare. Fino all’arrivo dei tedeschi, Malta la faceva da padrona: la sua base navale e aerea bloccava tutti i convogli che univano i porti libici all’Italia. Dalla primavera del 1941 le truppe della Luftwaffe, dislocate in Sicilia al comando del maresciallo Albert Kesselring, unite ai forti bombardamenti italiani, obbligarono Londra a trasferire altrove il grosso delle truppe maltesi, tanto che si temette l’occupazione dell’isola, che in mano inglese si presentava come una spina nel fianco dei progetti di Rommel. Questo stato di cose era a tutto vantaggio dei collegamenti italiani con la Libia. I rifornimenti per mare passavano ora regolarmente, migliorando ulteriormente la condizione dell’Asse in Africa.

 

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Le manovre di stazionamento

La «Volpe del deserto» continuava la veloce avanzata, liberò la Cirenaica e raggiunse Sollum, superando poi il confine con l’Egitto, benché non avesse ricevuto ordini in proposito. La sua esperienza, maturata nelle pianure francesi, nei boschi rumeni e sulle Alpi italiane durante la Grande Guerra e in lunghi anni di studio successivi, aveva dimostrato come l’azione bellica ha bisogno di due fattori per garantire risultati veloci e duraturi: la rapidità e la sorpresa. Il titolo del suo capolavoro letterario, che lo rese famoso in patria e all’estero a metà degli anni Trenta, non poteva essere più eloquente: Fanteria all’attacco. L’abilità tattica del generale era composta sia da astuta intelligenza nel preparare le offensive, sia dalla sua onnipresenza sul campo. Egli non desiderava ricevere bollettini dal fronte, era lui a scriverli per Berlino direttamente dai campi di battaglia. La sua «cicogna» volava costantemente sui Panzer all’attacco, rendendo subito chiara la situazione all’interno degli stessi scontri. Questa agilità di manovra rendeva Rommel capace di eventuali ritocchi fulminei d’improvvisazione sul campo, consacrando la sua tattica come opposta alla classica strategia da tavolino. Benché l’avanzata risultasse sbaragliante, la città fortificata di Tobruch rimaneva inespugnabile, anche se accerchiata e bombardata di continuo, dando inizio alla leggenda dei cosiddetti «Topi del deserto» britannici.

Nel frattempo Mussolini richiamò Gariboldi, che venne sostituito dal generale Ettore Bastico, a cui piacevano meno del precedente le precipitose corse del collega tedesco. Cambio della guardia anche ad Alessandria, Churchill richiamò Wavell e inviò al suo posto Claude Auchinleck. In giugno l’8^ Armata con il nuovo comandante iniziò un contrattacco insistente; con grandi manovre in Marmarica l’Asse perse di nuovo Bengasi e la Cirenaica, ma gli invasori vennero fermati in tempo, acquietando per mesi i due eserciti. Su Malta continuavano intanto i bombardamenti, ma il dominio britannico del mare era costante grazie alle potenti postazioni di Gibilterra e Alessandria alle due uniche imboccature del Mediterraneo. Proprio il porto egiziano comunque fu il teatro di una micidiale azione di astuzia della Regia Marina. Il 20 dicembre due «maiali», mezzi d’assalto subacquei italiani, entrarono nel porto e fecero saltare una grossa petroliera e due corazzate la Valiant e la Queen Elisabeth, ammiraglie della Royal Navy. Tale situazione portava la flotta italiana in superiorità numerica sui mari, ma la situazione era ancora critica. L’Italia aveva belle navi ma il radar non vi era istallato e le comunicazioni erano precarie; l’aviazione aveva solo il morse per collegarsi con la terra ferma; di conseguenza le battaglie sul mare erano combattute ancora in profondo svantaggio tecnico. Non mancarono le azioni eroiche e le dimostrazioni di valore, ma la superiorità tecnica e numerica dei britannici risultava sempre preponderante.

 

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La grande avanzata verso Suez

Intanto il grosso della flotta aerea tedesca venne di nuovo riportata nel Mediterraneo, visto che sul fronte russo era iniziata la cattiva stagione. Gli attacchi su Malta si susseguivano senza tregua. Mussolini, cosciente dell’importanza dell’isola, propose a Hitler un piano per la sua conquista, ma la risposta fu negativa. Benché il piano fosse stato bocciato, le navi italiane non trovavano più problemi nella navigazione; di conseguenza l’armata di Rommel risultava sempre ben equipaggiata per la nuova avanzata, la cui portata sembrava sufficiente a occupare Suez e isolare la Gran Bretagna dal suo impero. La «Volpe del deserto» non riscontrò difficoltà nel proseguire, anche se si ritrovava a comandare più italiani (privi di mezzi meccanizzati) che tedeschi. Egli supervisionava sempre le azioni di persona, pronto in ogni circostanza a improvvisare. Senza il consenso di Mussolini riprese Bengasi, catturando anche le scorte inglesi, utilissime per proseguire. In giugno venne conquistata la grossa postazione francese di Bir Hakeim. Anche Tobruch continuava a essere il bersaglio di martellanti attacchi. Il 20 giugno anche il porto della città venne preso, cogliendo i britannici di sorpresa e facendo prigionieri sei alti generali con i loro interi reparti. Anche qui si ottenne un enorme bottino di rifornimenti, di cibo e di combustibile, indispensabile per l’avanzata nel deserto.

Concluso l’assedio di Tobruch, il generale tedesco aveva tutte le carte in regola per procedere ancora più spedito verso il miraggio della vittoria: Suez. Al contrario i nemici erano nel dubbio se contrattaccare subito l’Asse o ritirarsi e bloccare più indietro gli italo-tedeschi, sperando di trovarli più stanchi e logorati dalla lunga corsa. L’indecisione favorì la «Volpe del deserto» che avanzava, favorita dalla passività inglese. In luglio Rommel raggiunse El Alamein, privo però di ulteriore carburante e lontano dai propri porti di rifornimento. Al contrario Auchinleck era vicino alle proprie basi. Alessandria distava solo 60 chilometri dal fronte e sembrava ormai a portata di mano per i tedeschi.

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Il fronte di El Alamein

Mussolini che vedeva già Alessandria conquistata, arrivò in Libia e si preparò a entrare vittorioso nella città, avendo già deciso anche le cariche politiche da assegnare per la nuova provincia. Però non aveva fatto i conti con la stagnazione del fronte di El Alamein e dopo un’attesa vana, venne obbligato a tornare a Roma. Intanto Göring richiamava gli aerei dalla Sicilia in Russia e Rommel per mala sorte divenne la vittima dell’interdipendenza di più fronti. Ciò favoriva Malta, che ritornava un’ottima base per l’ammiraglio Andrew Cunningham, che iniziava subito il piano per affondare i carichi, necessari per continuare l’avanzata dell’Asse. A El Alamein lo scontro aveva intanto inizio: Auchinleck poteva contare su 150 carri armati dell’ultimo modello, Rommel ne aveva 90, di cui 30 italiani; per di più il carburante continuava a non arrivare e le postazioni dei britannici erano meglio difese. La «Volpe del deserto» in estate tentò ugualmente l’attacco, ma le linee avversarie resistevano. Dall’Europa arrivavano manipoli di uomini e due brigate paracadutiste in piena efficienza, la tedesca Ramke e l’italiana Folgore. Quest’ultima era stata addestrata per occupare Malta, invece si trovava a piedi, senza mezzi nel deserto, a fare da rincalzo agli altri reparti di fanteria. La zona di El Alamein, larga appena 60 chilometri, si estendeva tra la depressione di El Qattara e il mare, presentandosi come una trappola per le truppe dell’Asse. Rommel si trovava isolato dalla linea di rifornimento lunga oltre 1.000 chilometri. Intanto gli italiani reggevano fino alla distruzione nella fortezza isolata di Giarabub.

 

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La Faina contro la Volpe

Prima di fare una visita a Stalin per discutere del «Secondo fronte», il 30 luglio arrivò al Cairo Churchill. Questi rimosse Auchinleck, benché avesse vinto la battaglia difensiva, e al suo posto nominò quale comandante del Medio Oriente il maresciallo Harold Alexander e mise a capo dell’8^ Armata il generale Bernard Law Montgomery. Il nuovo comandante dei «Topi del deserto», capì che le truppe inglesi non avevano bisogno di una nuova organizzazione, che di per sé era buona. Non vi erano problemi di equipaggiamento, dopo gli ultimi invii dall’America, o di struttura, che aveva retto bene a El Alamein contro i tedeschi, piuttosto era fondamentale creare un’immagine in contrapposizione al condottiero germanico, che più dei carri armati aveva creato scompiglio in Egitto. Se Auchinleck aveva emanato solo dispacci per sminuire la figura dell’avversario, il suo successore inventò su se stesso un personaggio da contrapporre a Rommel. Quest’ultimo indossava il cappello con gli occhiali di plastica (tra l’altro preda bellica, sottratti a un generale inglese) e un cappotto scuro, Montgomery gli contrappone prima il cappellone australiano e poi il basco nero dei carristi, un maglione e un corto pastrano, ben presto conosciuto come «montgomery». Così nacque la leggenda della «Faina». I nuovi ordini erano brevi e chiari: niente ritirata. In agosto preparò una trappola a Rommel, che poteva disporre di soli 443 carri, tentando l’ultimo attacco per accerchiare le truppe sulla costa, ma i britannici possedevano 713 nuovissimi carri Sherman, più altri 222 di riserva. Limitandosi a perfezionare il piano di battaglia del predecessore Auchinleck, l’8^ Armata aveva tutto l’equipaggiamento in condizione eccellente, non aveva carenze di acqua e di cibo e nei cieli regnava la Raf.

Rommel intanto parlava ancora di attacco sul Cairo e il 30 agosto si spingeva verso i campi minati, di cui gli sono state fatte ritrovare volutamente mappe false dagli inglesi. I paracadutisti cercarono invano nel deserto di creare un passaggio, ma venivano bloccati dal fuoco dell’artiglieria nemica. Il 3 settembre Rommel ordinò la ritirata dopo la disastrosa disfatta che lo riportava sulle linee di partenza. Dopo un periodo molto estenuante, il generale venne richiamato a Berlino per curarsi le malattie contratte nel deserto. Hitler e Göring gli promisero rispettivamente un grosso quantitativo di nuovi carri e la protezione aerea. Di reale però ci fu solo una stretta di mano, la nomina e il bastone di feldmaresciallo. La megalomania  del dittatore tedesco portava a credere nei presupposti vincenti e nelle speranze per la sua doppia tenaglia, tra Stalingrado e l’Egitto, che avrebbe dovuto sbaragliare e atterrire il mondo. I suoi sogni annebbiavano la realtà: l’impresa e in generale i suoi piani erano divenuti pura utopia.

El_Alamein_1942_-_British_infantry

Il principio della fine

Intanto da Mosca Stalin chiedeva con insistenza ai governi inglese e americano di aprire un decisivo fronte in Francia, ma Churchill lo rassicurò, elogiando le caratteristiche delle azioni in Africa e soprattutto di uno sbarco in Marocco a opera degli statunitensi. Il leader sovietico sembrava calmato, ma non mollava nelle sue decisioni, forte dell’immane sforzo che il suo popolo compieva ogni giorno contro il grosso delle Armate tedesche. Il primo ministro britannico ordinò quindi ai suoi uomini di attaccare in settembre da El Alamein. Montgomery fece comprendere che a ottobre l’attacco avrebbe avuto un maggiore il successo, garantendo una più rapida ritirata e la cacciata di Rommel dal Nord Africa.

Il 23 ottobre con notte di luna piena partiva l’azione, l’operazione «Lightfoot» che si caratterizzava subito per la notevole preponderanza britannica di mezzi e di uomini sulle esili linee italo-tedesche, comandate provvisoriamente in assenza di Rommel da due validi quanto sfortunati generali, comandanti di truppe corazzate: Georg Stumme, che però morì di infarto, e Wilhelm Von Thoma, che il 4 novembre si arrese agli inglesi.

Intanto nella parte occidentale dello stesso continente iniziava l’operazione «Torch» agli ordini del tenente generale Dwinght David Eisenhower, che non aveva mai comandato in battaglia, ma che aveva a disposizione ed era alla testa di un notevole contingente. Lo sbarco non trovò nessun ostacolo ad Algeri e a Casablanca, una modesta difesa a Orario da parte dei soldati francesi fedeli a Vichy. «Ike», uomo di caserma non molto colto di questioni politiche, si accorse presto di essere entrato nel groviglio diplomatico francese, che vedeva contrapporsi i generali Charles De Gaulle a Londra (ma con il suo esercito combattente nelle colonie a capo di Philippe Leclerc), Philippe Pétain sempre più succube dei nazisti, mentre l’ammiraglio François Darlan e il generale Henri Giraud in posizione alquanto altalenante. Eisenhower si trovò arbitro delle controversie, ma allo stesso tempo continuava le operazioni di pressione sui tedeschi, anche grazie alla grinta e capacità bellica del suoi generali subalterni: George Smith Patton e Omar Bradley.

Nel gennaio 1943 a Casablanca si aprì una conferenza tra Churchill e Roosevelt; Stalin non era presente, ma chiedeva ancora con insistenza un fronte a Occidente. Nella riunione marocchina venne fissato per il 1944, uno sbarco in Francia, ma si sottolineava anche quello prossimo in Italia, definita ventre molle dell’Asse. In questa circostanza venne approvata anche la proposta di resa senza condizioni per le potenze nemiche, fatta esclusione dell’Italia, privilegio che avrebbe potuto favorire una sua prossima defezione dalle controversie

Intanto Tripoli cadde in gennaio e così tramontava l’avventura di Rommel in Africa; in maggio fu la volta di Tunisi, con la resa di tutte le forze comandate dall’abile maresciallo d’Italia Giovanni Messe, con l’abbandono di tutte le speranze africane: tutto era pronto per sfidare li continente europeo!

 

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La Battaglia d’Inghilterra (1940-1941)

La Battaglia d’Inghilterra (1940-1941)

La Battaglia d’Inghilterra

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La preparazione dell’invasione

La guerra lampo tedesca aveva dato ottimi risultati: in meno di un anno erano cadute la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio e la Francia. Hitler sentiva la vittoria in tasca, anche se non tutti i suoi nemici erano caduti sotto i suoi artigli; in armi vi era ancora la Gran Bretagna. Da Calais le bianche scogliere di Dover erano ben visibili e al dittatore non sembrava difficile raggiungerle. Insieme al suo Stato maggiore studiava un piano per l’occupazione delle isole britanniche, ultimo baluardo prima della conquista del mondo. Hitler affermava con convinzione di poter facilmente raggiungere il suo obiettivo, vincendo dove aveva fallito Napoleone. Le truppe dislocate sulla costa Sud della Manica si sentivano piene di energia, non vedevano l’ora che iniziasse quella che giudicavano ormai l’ultima offensiva, prima della vittoria totale. Il piano per l’attacco venne preparato con precisione in sei settimane. Esso prevedeva tre fasi. La prima doveva garantire la superiorità aerea e marittima per l’eliminazione delle vie di comunicazione; con la seconda vi era l’impiego delle truppe paracadutiste, per la preparazione a terra degli sbarchi con opere di sabotaggio; infine la terza fase, l’attacco vero e proprio dal mare e dal cielo, con i1 quale si continuava la tattica della Blitzkrieg in terra britannica.

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La guerra del popolo

Nel periodo successivo alla fine della Battaglia di Francia, il Regno Unito non rimase inoperoso, anzi iniziò a preparare la difesa della propria terra. L’esercito era in condizioni disastrose, formato dagli scampati di Dunkerque, perlopiù malati, feriti e stanchi. L’equipaggiamento era inesistente, tutto il materiale e le armi erano state abbandonate in Francia per salvare gli uomini. Quello che si aveva non era sufficiente nemmeno per una divisione. La marina era ancora in piedi, ma si trovava dispersa per il mondo nella difesa delle colonie e delle linee di rifornimento; del resto sarebbe stato inutile e distruttivo pensare di posizionarla nella Manica, come bersaglio degli attacchi della Luftwaffe. L’aviazione di Sua maestà poi, per quanto moderna potesse essere, era inconsistente nel numero; il rapporto con quella tedesca sia per uomini che per mezzi era di 1 a 10. La vera spinta che però Hitler non prevedeva non si basava nella consistenza delle forze armate, ma nella partecipazione di tutto il popolo britannico alla difesa comune; solo in uno Stato democratico era la gente che faceva la guerra, non solo le forze armate o il governo. Tutti, uomini e donne, adolescenti e anziani iniziarono l’impegno per lo sviluppo della potenza bellica. Il lavoro in fabbrica non aveva sosta, gli operai iniziarono a lavorare fino a 70 ore settimanali. Solo il governo li obbligò a diminuire i turni per mantenere efficiente la produzione, divenuta imperfetta a causa della stanchezza. Al di fuori delle fabbriche si preparavano rifugi antibombardamento; le «milizie popolari» si addestravano e perlustravano le campagne alla ricerca di spie e di paracadutisti nemici; sulle spiagge iniziarono i lavori di difesa.

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La Royal Air Force

I tedeschi non si fecero attendere e all’alba dell’8 agosto i loro aerei compirono per la prima volta quelle 21 miglia di mare, quegli otto minuti di volo che separavano il continente dalla «Perfida Albione». I bersagli dell’offensiva erano le navi mercantili, quelle militari e i porti; bisognava impedire che la nazione fosse mantenuta dal di fuori, sottraendogli le materie prime e i generi di consumo. Churchill, forte del suo ottimistico senso di vittoria, lasciò la difesa aerea al comandante dell’Aria, maresciallo sir Hugh C. T. Dowding, consapevole della propria inferiorità numerica ma speranzoso nell’impiego del radar, che secondo il primo ministro poteva rivelarsi l’arma vincente. Anche se la Raf si trovava attaccata da ogni lato, adoperava i propri validi aerei e giovani piloti secondo schemi ottimali. Il personale delle flotte ebbero la meglio sugli avversari, abbattendo subito molti velivoli nemici. Il segreto dell’aviazione britannica era la dislocazione degli apparecchi; non vennero ammassati sulle piste o negli hangar, ma in luoghi nascosti e difficili da colpire. In questo modo non solo non erano di facile bersaglio, ma avevano la possibilità di decollare con rapidità dopo l’allarme delle postazioni radar costiere, che del resto individuavano gli stormi avversari ancora in territorio francese e suddividevano geograficamente le zone aeree di combattimento.

Questa tattica apparve subito favorevole agli «assediati» che riuscirono ad abbattere in 10 giorni 697 aerei tedeschi, catturando anche molti piloti scampati; al contrario le loro perdite erano state di molto inferiori: solo 153 apparecchi persi dei quali riuscirono a salvarsi 60 piloti. Oltre a piloti britannici e delle colonie, le forze aeree erano formate, per la scarsezza di piloti, anche da aviatori delle nazioni già cadute sotto il giogo nazista: polacchi, belgi, francesi, ecc.

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Distruzione e libertà

Hitler anche se al Reichstag continuava con i suoi ottimistici proclami, con i suoi apparve vivamente scontento della situazione. I suoi piani di invasione risultavano bloccati; per questo Göring prese direttamente il controllo dei bombardamenti. Alla fine di agosto l’operazione venne impostata con un altro metodo di attacco: più caccia e meno bombardieri (o forse c’era penuria di bombardieri) diretti ai centri industriali del Sud e della capitale, ma in questo frangente l’impiego del radar permetteva sempre di rispondere con allarmi veloci e contrattacchi fulminei. Il risultato non cambiò: nelle operazioni di inizio settembre la Luftwaffe aveva perduto 562 aerei con i relativi equipaggi, la Raf solo 219 velivoli, salvando 132 piloti.

Il dittatore tedesco rimase assolutamente sbalordito dall’incapacità di sconfiggere l’avversario militarmente, quindi decise di provare a distruggere lo spirito libero inglese, che gli si presenta così ostico. Iniziarono così i massicci bombardamenti sulla capitale, martoriata in pochi giorni. La popolazione non demordeva e si abituò a vivere nei rifugi o nella metropolitana e a mangiare poco; i pompieri erano sempre in servizio e le basi dell’aviazione rimaneva sempre in allerta. Il 7 settembre la Battaglia d’Inghilterra divenne la Battaglia di Londra, le bombe cadevano dappertutto sulle case, sui negozi, sugli ospedali, sulle industrie e sulle chiese. In questa distruzione selvaggia venne usato anche un tipo di bomba che scoppiava solo dopo giorni e quindi che provocava ancora più danni e più morti. Tutto ciò non faceva crollare la nazione, anzi gli Spitfires e gli Hurricanes continuavano imperterriti negli scontri aerei, uscendo per la maggior parte vincitori. Churchill e re Giorgio V rimasero vicini alla popolazione nel sacrificio e nella speranza di un riscatto.

La reazione di Göring si rivelò sempre più aggressiva, tra il 7 settembre e il 5 ottobre vennero gettati 50 milioni di libbre di esplosivo sulla capitale, che provocarono 7.000 morti e più di 10.000 feriti. Caddero bombe anche su Buckingham Palace, sulla cattedrale di Westminster, sul Parlamento e sulla basilica di San Paolo; il quartiere dei Dooks divennero un inferno di fuoco. I nazisti in questo modo avevano l’obiettivo di distruggere il passato storico britannico, ma questa impresa gli causò anche la perdita di altri 900 aerei. Dal 6 ottobre iniziarono anche i bombardamenti notturni, che dovevano avere il compito di sottomettere e far chiedere pietà ai londinesi, ma essi resistevano sotto le rovine e continuavano il lavoro in fabbrica. Gli aerei britannici continuavano e non solo si difendevano ma iniziarono a bombardare anche le città tedesche: Brema, Amburgo, Hannover e perfino Berlino. A tale presunzione Hitler non ci vide più dalla rabbia e al grido di «dannati assassini» ordinò una vendetta mille volte maggiore: il 14 novembre la cittadina costiera di Coventry venne rasa al suolo, come Varsavia e Rotterdam. Il termine «coventrizzare», sinonimo di distruggere e radere al suolo, prese vita proprio in quell’occasione.

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La vittoria del popolo

Dopo devastazioni, sofferenze e morti, il popolo britannico era sempre in piedi e soprattutto libero. Infatti la battaglia era stata vinta dal popolo non dall’esercito. Hitler aveva perduto ed era crollata la famosa invincibilità tedesca. La Germania aveva perso 2.375 aerei e aveva provocato 40.000 morti e 50.000 feriti, ma nessun soldato nazista aveva calpestato le spiagge britanniche; solo i prigionieri avevano potuto varcare il terreno dell’isola.

Ciò poté accadere, perché lo scontro era tra un regime totalitario e una popolazione libera, motivata perché difendeva casa propria. In questo modo una «debole e molle democrazia» non aveva solo respinto le armate nazista, ma aveva guadagnato mesi preziosi nella lotta contro la barbarie e la sopraffazione.

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